Itinerario archeologico
Il nostro itinerario inizia da Piazza Carlo Fontana, che prende il nome dal noto architetto che in essa vi costruì nel 1675 per ordine di Filippo Cesarini l’elegante Fontana degli Scogli, che è possibile ammirare ancora in tutta la sua eleganza.
Dirimpetto alla Fontana degli Scogli, sul lato opposto della piazza, vediamo una parte del Castello Medioevale, esso è circondato ancora oggi dalle mura, con ai vertici le imponenti torri.
Da piazza Carlo Fontana, entriamo all’interno del Borgo Medioevale attraverso via M. Colonna, per giungere in un punto in cui c’è da un lato la Chiesa Collegiata, dall’altro il Palazzo Colonna. Quest’ultimo, di dimensioni modeste ed incompleto, ha subito nel corso dei secoli varie modifiche che ne hanno cancellato per sempre l’originaria estetica. Nella sua facciata principale, ha inglobato un Sarcofago Marmoreo Romano del III sec. d.C., donato nel 1689 dal duca Filippo Cesarini a Lanuvio, e che fu rinvenuto nella sua villa suburbana lungo la via Appia.
Va inoltre ricordato che la parte N.O. del castello è stata edificata sopra i resti di un Teatro Romano, tracce della cui cavea appartenenti al muro radiale si possono osservare presso la Fontanella di Piazza Centuripe.
Altri resti visibili appartenenti al teatro, sono inseriti nel muro di cinta Ovest del castello in via Alcide De Gasperi. Le mura Sud dello stesso presentano invece avanzi di un imponente muro in opera quadrata sul quale insistono resti romani in opera listata quasi addossati alla torre cilindrica a S.O. Il Galieti basandosi sul passo di Cicerone “De Finibus I. 20, 63”, che vedeva Lanuvio ricca di tali edifici, volle riconoscere in questi resti un sacello.
Abbandonando Piazza Tempio d’Ercole, e incamminandoci per Via Astura notiamo le grandiose Mura del V sec. a.C. ad opera quadrata irregolare che avevano la funzione di sorreggere verso oriente la terrazza inferiore oltre a cingere l’antica Lanuvium.
Addossata ad esse vi è la circumductio, strada romana lastricata con selci poligonali che proveniva dalla via Appia e congiungeva, superando ponte Loreto (in buono stato di conservazione) il mare ed Astura.
Tornando a piazza Carlo Fontana, da dove era iniziato il nostro percorso procediamo lungo Via Sforza Cesarini che ci conduce verso quella che in antico era l’Acropoli Lanuvina. Resti di essa si trovano dentro Villa Sforza Cesarini, alla quale si accede dall’omonima via. Trattasi di un tratto di porticato antico in ottimo stato di conservazione, con archi intervallati da semicolonne doriche sporgenti e dietro il porticato abbiamo concamerazioni e basi di mura per una notevole ampiezza.
Uscendo da villa Sforza e incamminandoci per via S. Lorenzo, arriviamo nei pressi di un grande edificio dei Salesiani, nel terreno dei quali vi sono i resti del Tempio di Giunone Sospita, il più celebre fra gli edifici di Lanuvio antica. Di esso, che ebbe grande culto e lunga vita in tutto il Lazio antico, restano oggi solo dei grandi blocchi squadrati di peperino, poiché alcuni elementi appartenenti alla trabeazione venuti in luce il secolo scorso, si trovano ora al British Museum, tranne un’antefissa al Museo di Villa Giulia a Roma.
Il Borgo Medioevale di Lanuvio
Nasce probabilmente come castrum già nel IX sec. d.C. per avvistare le incursioni saracene riutilizzando molto materiale di età romana che si trovava in situ.
Ci si riferisce in particolare ai blocchi in peperino in opera quadrata di età romana disposti irregolarmente su almeno tre dei cinque lati del castello e che in età romana erano pertinenti al TERZO terrazzamento dell’antica LANUVIUM ed in particolare in Largo tempio d’Ercole, in via Alcide de Gasperi e sotto la torre semaforica in piazza Mazzini.
Sarà però nel Sec. XI che il Borgo Medioevale di Lanuvio (Civita Lavinia) grazie all’impulso dei Monaci Benedettini vedrà nuova luce e all’intervento del sec. XI vanno attribuite quattro delle cinque Torri che ancor oggi si presentano nella loro quasi totalità e buona parte della cinta muraria che è stata oggetto di un felice restauro negli anni ottanta.
Il Castello di Civita Lavinia fu oggetto di numerosi attacchi ed incursioni, tra i quali degno di menzione è quello del 1347 ad opera dei Frangipane che distrussero la rocca che venne ricostruita pochi anni dopo ma con un’ edilizia tipica del XIV sec d.C.
Ed infatti la torre di porta romana, con una chiara funzione semaforica, è costruita su due tamburi sovrapposti e vi è riprodotto in marmo nel tamburo inferiore, lo stemma del Pontefice Vittore III(1086-1087) a cui probabilmente va, secondo Alberto Galieti, attribuita la ricostituzione del paese.
La funzione difensiva del Castello cessò nel 1564, anno in cui Giuliano Cesarini acquistò Civita Lavinia ed Ardea al prezzo di 105.000 scudi, ma è comunque il caso di ricordare, tramite brevi cenni, tutti i monumenti più significativi che si trovano all’interno ed immediatamente a ridosso dello stesso e che hanno visto la luce in epoche diverse.
Il Tempio d'Ercole
Del tempio d’Ercole, collocato sul primo terrazzamento dell’antica Lanuvium, rimane allo stato attuale soltanto la sostruzione(1).
Le considerevoli dimensioni di quest’ultima, mt. 33 di lunghezza x 9,35 di altezza, nonchè la precisione e la tecnica dei blocchi che la compongono sono testimonianza inequivocabile dell’importanza del complesso religioso che come importanza era secondo soltanto al Santuario di Giunone Sospita.
I dati attuali non ci permettono di stabilire l’esatta localizzazione del tempio vero e proprio e per la sua ubicazione approssimativa dobbiamo utilizzare alcuni elementi preziosi dati dai ritrovamenti archeologici della zona. Infatti dal 1903 al 1907, nel condurre lavori di sbancamento, all’interno della proprietà Seratrice, venne asportata la parte superiore di una cisterna in disuso e piena di macerie.
La cisterna, distante 25 mt. dai resti del tempio restituì frammenti architettonici, capitelli, la vera di un pozzo in marmo, cippi sacri, dediche votive in relazione ad Ercole, che permisero l’attribuzione del Tempio al figlio di Leda(2).
Ma il ritrovamento più significativo consiste in un altorilievo che venne recuperato, in frammenti, nel 1968 e che attualmente si conserva nel Museo Civico di Albano(3). Misura mt. 0,66 di larghezza x mt. 0,54 di altezza ed è datato al 330 a. C. circa(4).
Vi sono raffigurate tre figure: due menadi ed un sileno. L’editore si è stupito del fatto che su una fronte di un tempio d’Ercole, della cui provenienza non c’è il minimo dubbio, si sia concesso uno spazio tanto importante ad un tiaso bacchico. Quest’ultimo, infatti, è frequente sui templi etruschi e latini già dall’età tardo-arcaica, ma si manifesta solo sulle antefisse(4bis). Pertanto l’unica spiegazione che l’editore trova, è una lettura del pezzo in chiave decisamente romana.
Alcuni autori latini, infatti, hanno narrato una vicenda secondo la quale Ercole sarebbe stato il salvatore di Ino-Leucotea, perseguitata dalle menadi aizzate da Giunone(5). Nel rilievo lanuvino, quindi, vi sarebbe rappresentato l’incontro-scontro, ripreso da Ovidio, tra Ino-Leucotea e le menadi selvagge. Evento accaduto nel foro Boario, luogo in cui era esaltato il ruolo d’Ercole come garante dell’incolumità dello straniero(6).
Letto in quest’ottica si chiarisce anche il significato dell’altorilievo di Lanuvio: datato a poco dopo l’annessione di Lanuvium alla civitas romana (338 a.C.), è da mettere in relazione al tempio d’Ercole, accresciuto di importanza, dopo l’annessione di Lanuvio da parte di Roma, per fare da contrappeso al culto della Giunone Sospita, ritenuto, quest’ultimo, lanuvino(7).
I Santuari d’Ercole avevano anche un’innegabile carattere emporico(8); fenomeno questo che apre nuovi spiragli di ricerca anche per comprendere le complesse vicende storiche della cittadina di Lanuvio.
Eracle era considerato dio dei mercanti, e di solito i suoi templi venivano edificati lungo vie transitate da mercanti, così come accade a Lanuvio dove l’impianto religioso è collocato lungo la via Astura che metteva in contatto, per scopi perlopiù commerciali, Antium e Satricum alla latina Lanuvium.
1) Sul tempio d’Ercole e le sue vicende cfr. gli esauriente studi da parte del Galieti; A. Galieti, Memoria dell’Heracleion lanuvino a Civita Lavinia, in Bollettino dell’Associazione Archeologica Romana, Roma 1911, n. 2, pp. 25- 43; A. Galieti, La fronte dell’Heracleion di Lanuvio, in Bolletino dell’Associazione Veliterna di Storia ed Arte, Velletri 1932, III-IV trim., pp.39-42; A. Galieti, Lanuvio. Rinvenimento di fabbrica idraulica e di contrafforti a nord del “suggestum” sillano, in NSc VII-XII 1953, pp. 327-331.
2) Per i ritrovamenti all’interno della cisterna vedi D. Vaglieri, Civita Lavvinia in Notizie e Scavi dell’Antichità, 1907, II, pp. 127, 609, 658-659.
3) Per il recupero e le varie vicende del pezzo cfr Chiarucci, Lanuvium, 1983, p.107, nota 32, fig. 44.
3) 4) Cfr. G. Colonna,Membra disiecta di altorilievi frontonali, in Atti del XVI Convegno di Studi Etrusco e Italici, Roma, 1989, p. 113 ss.
4) 4 bis) G. Colonna,Membra disiecta di altorilievi frontonali, in Atti del XVI Convegno di Studi Etrusco e Italici, Roma, 1989, p. 118 ss.
5) A parlarcene è un passo di Ovidio( Fast.VI, 501-524), dove in un mitico tempo delle origini, le Menades Ausoniae, spinte da Giunone, assalgono Ino per sottrarle il piccolo Melicerte. Un altro passo narratoci però da Virgilio (Aen. VII, 341-406), in cui Ino non c’entra, vuole le menadi intente a gettare nel caos la città di Latino. In entrambi i casi il referente delle menadi è Giunone. Colonna non vede male, in questa Giunone di cui parlano Ovidio e Virgilio, una Giunone che possa avere le bellicose caratteristiche di quella lanuvina; ( cfr. Colonna, Membra disiecta, p. 120)..
6) Per Coarelli il mito già in epoca arcaica rivestiva un’enorme importanza ( F. Coarelli, I Santuari, il fiume, gli empori, in Storia di Roma Vol. I, 1988, p. 144). Coarelli vede, infatti, nei templi di Portunus e di Mater Matuta una corrispondenza topografica che si riallaccia al mito di Ino-Leucotea; in quanto in età arcaica i due templi, assimilati a Ino- Leucotea il secondo e a Palemon – Melikertes il primo, erano stati orientati in modo da trovarsi l’uno di fronte all’altro, orientamento non casuale( Coarelli, Santuari, fiume, empori, p. 145).
7) Colonna, Membra disiecta, p. 120.
8) Abbiamo in primo luogo un passo di Giustino, (43, 3, 4), secondo il quale intorno al 600 a. C. i Focei, diretti a fondare Marsiglia, avrebbero risalito il Tevere per stringere alleanza con Tarquinio Prisco. Presenza Focea che costituirà nel corso del VI sec. a.C., una componente essenziale del quadro di tutta l’area del Medio-Tirreno (Coarelli, pp. 146-147).
L’ipotesi della risalita dei fiumi è resa tra l’altro verosimile anche da un passo di Erodoto, (I, 163), in cui lo storico ricorda che i Focei, quando commerciavano in Occidente, si servivano di pentecontere, navi a 50 remi. Per Coarelli una motivazione di questo fatto , può essere quello di risalire i fiumi controcorrente, (Coarelli, Foro Boario, pp. 123-124).
Frammenti di affresco con scene d'iniziazione Dionisiaca
Nel Museo Civico di Lanuvio si conservano attualmente una serie di frammenti d’intonaco dipinto, ritrovati nel 1977 presso il cimitero di Lanuvio, che rappresentano qualitativamente una delle più alte attestazioni della pittura parietale romana.
La pittura è pertinente ad una villa a terrazze posta immediatamente a Sud-Est del Colle S. Lorenzo, dove è ubicato il Santuario di Giunone Sospita.
I frammenti d’intonaco dipinto conservati sono 27, di questi 23 ricongiungibili e presentano una zona figurata inquadrata da cornici, con motivo ad anthemion nella parte superiore, e un motivo a languettes in quella inferiore.
Dei restanti quattro, due mostrano rispettivamente il cielo e parte della cornice inferiore con una linea nera a chiusura della scena figurata, e gli ultimi due frammenti, in contatto tra loro, mostrano avanzi di un motivo a candelabro su fondo rosso cinabro.
La zona figurata e le due fasce di chiusura della pittura lanuvina misurano complessivamente cm. 40,5 in altezza e, cm. 56 in larghezza (per quello che ancora si può vedere). La pittura, per le sue proporzioni limitate e per le cornici di chiusura decorate diversamente nella zona superiore e in quella inferiore, sembra essere parte di un fregio figurato o di una predella figurata.
Negli intonaci figurati lanuvini è rappresentato un rituale dionisiaco che si svolge all’aperto, tematica frequente nell’ambito del terzo stile, soprattutto nella fase finale.
La scena figurata mostra un paesaggio agreste in cui si sta compiendo una iniziazione dionisiaca; riportano infatti ad ambito dionisiaco, oltre alla presenza del tirso e del cymbalum appesi all’albero, la didascalia centrale in greco che menziona chiaramente il nome del dio del vino e ci permette di identificare con certezza la statua raffigurata e tutta un’altra serie di elementi.
La prima figura che si impone, per la sua centralità nell’intera scena e per la sua importanza rispetto a tutto il resto, è quella inserita all’interno del baldacchino.
Essa rappresenta una statua di Dioniso seduto su uno sgabello, cinto da una corona aurea, che tiene con la sinistra il tirso e con la destra il cantaro.
Le due donne con fiaccole sono figure attestate con una certa frequenza in ambito dionisiaco e dovrebbero rappresentare delle menadi che, in questo caso, fungono da assistenti al rito di iniziazione.
Se poniamo l’attenzione al centro della pittura, notiamo la presenza di un ulteriore personaggio femminile di cui possiamo dire soltanto che veste un chitone violaceo e dei calzari rossi. Della parte superiore del corpo restano soltanto le due braccia con le quali la fanciulla tiene sollevato il liknon sopra la testa del personaggio ammantato, che è vestito alla maniera frigia. Tale personaggio si trova nella zona centrale dell’intonaco, che è fortemente frammentaria, e compare in primo piano. Porta alti calzari ed anaxyrides, cioè pantaloni lunghi ed attillati.
Nel personaggio ammantato in primo piano e nella figura femminile frammentaria che gli tiene sollevato il liknon sopra la testa la chiave di lettura più convincente è la seguente: si tratta nel caso del personaggio ammantato di un iniziando ai misteri dionisiaci, visto che il volto velato è nel mondo dionisiaco una prerogativa degli iniziandi; va osservato che il liknon sopra la testa dell’iniziato raffigurato nella pittura lanuvina non è ancora stato scoperto.
L’albero al centro sta a connotare lo svolgimento all’aperto della cerimonia, ed è chiaramente indicata la connessione ai culti dionisiaci attraverso il cymbalum ed il tirso inserito tra i suoi rami.
Si potrebbe forse trattare di un sicomoro: le sue foglie infatti sono lunghe e strette, serrate l’una all’altra.
Sotto l’albero sono raffigurati parte di un animale e parte di un personaggio, entrambi in uno stato piuttosto frammentario.
Dell’animale restano solo le zampe e le orecchie, che potrebbero raffigurare sia un mulo che una capra.
Sarei però più propenso a riconoscere nell’animale della pittura una capra; e questo sia perchè gli zoccoli dell’animale presentano l’apertura nella parte anteriore, sia perchè le zampe sono troppo esili per essere quelle di un mulo. La capra è accompagnata da un satiro.
Entrambi sono individuabili nella zona immediatamente al di sotto dell’albero. La capra è tra gli animali che si sacrificano a Dioniso.
Ma va anche detto che un altro aspetto riconducibile ad un animale della cerchia dionisiaca e che potrebbe (il condizionale è d’obbligo) riportare all’intonaco figurato lanuvino, è il motivo del toro.
Al momento del rinvenimento nel 1977, infatti, la pittura non era ridotta in frammenti né presentava quella lacuna centrale in cui, a detta di coloro che hanno miracolosamente salvato il pezzo dall’incuria, doveva essere un toro trascinato da due uomini verso il centro della scena; la parte sinistra mancante, invece, non è mai stata rinvenuta .
Al gruppo dei due uomini che tiravano il toro verso il centro della scena, potrebbe essere pertinente la parte superiore di un pedum che compare in basso e a destra delle due figure inserite all’interno del baldacchino vegetale .
Esse, probabilmente in relazione al pedum e a tutto ciò che è purtroppo caduto in lacuna, raffigurano nient’altro che Dioniso sorretto da un satiro secondo un’iconografia ben documentata.
Nella pittura lanuvina non ci sono sileni, ed entrambi i satiri presenti, sia quello che sorregge Dioniso, sia quello che è a contatto con la capra, incarnano perfettamente questi tratti idilliaci e rustici di cui abbiamo detto finora, sono giovani ed imberbi e il loro atteggiamento, così come tutto l’insieme della composizione, ispira un senso di pacatezza assoluta.
Le altre figure appaiono molto frammentarie e mi riferisco in particolare a quella all’estrema sinistra, vicina al cratere, della quale appare soltanto la parte superiore a causa della frattura che interessa l’intonaco in questa zona. Per tale personaggio quindi, è difficile dare una descrizione esauriente e completa.
Un elemento con cui potrebbe essere messo in relazione è l’iscrizione in greco poco più in basso a destra (di chi osserva), sotto al cratere metallico. Nell’iscrizione in greco di quattro lettere, che presenta a sinistra una lacuna (non è certo quindi se la didascalia sia completa), compare una scritta [—] che potrebbe forse essere il nome di Ino, nutrice di Dioniso. La figura dimezzata col braccio proteso in avanti, in base agli esempi citati, non mostra nessuna attinenza con la nutrice di Dioniso, ma potrebbe trattarsi di una menade. Il cratere metallico al di sopra dell’iscrizione, che prima abbiamo solo menzionato, è in relazione a contesti sacrificali: sappiamo infatti che, quando il banchetto finiva, si beveva insieme ed era associato anche a cerimonie iniziatiche.
E’ anche presente sullo sfondo un tempio, il quale, visto il contesto iniziatico in cui ci troviamo, fa tornare alla mente il passo di Livio, secondo cui gli aspiranti all’iniziazione dionisiaca dovevano osservare dieci giorni di astinenza anche dal vino, al termine dei quali aveva luogo un pasto solenne e venivano ammessi nel sacrario: “Bacchis eum se initiaturam….. decem dierum castimonia opus esse: decimo die cenatum, deinde pure lautum in sacrarium deductaram”.
Breve tratto della via Ardeate-Lanuvina
Le fondazioni del Balineum e un breve tratto della via Ardeate–Lanuvina all’interno del Museo Civico di Lanuvio.
All’interno del Museo Civico, durante i lavori di realizzazione di un’intercapedine retrostante il Municipio sono stati rinvenuti nel 1999 alcuni basoli della via Ardeate-Lanuvina e le fondazioni del balineum dell’antica Lanuvium, balineum da cui proviene la famosa iscrizione di Lucio Ocra rinvenuta alla fine dell’800 e attualmente conservata al Museo Civico.
Il Comune di Lanuvio in collaborazione coa la Soprintendenza archeologica per il Lazio ha realizzato una struttura che renda visibile le strutture archeologiche emerse.
L’accesso all’intercapedine e quindi alle fondazioni del balineum ed ai basoli della via Ardeate-Lanuvina è possibile soltanto dal Museo Civico ed attualmente non è aperto al pubblico.
Il Grifone alato
Tra il 1832 e il 1834 tornarono fortuitamente alla luce nell’area del teatro romano di Lanuvio, nel fare dei lavori di fondazione in proprietà Auconi, alcuni elementi architettonici marmorei: un frammento di architrave, quattro frammenti di cornici frontonali, due acroteri angolari, un parapetto.
La scoperta dei marmi ebbe un’eco cos notevole che lo stesso pontefice Gregorio XVI volle recarsi in persona a Lanuvio per ammirarli.
Tra i reperti sopramenzionati quello che desta maggiore interesse è il parapetto marmoreo.
Il pezzo, che sembra essere la parte terminale di un fianco del teatro, reca scolpito a bassorilievo, su entrambi i lati, un grifone alato, seduto sulle zampe posteriori e con una delle zampe anteriori sollevata rampante. La coda si sviluppa in ricche volute, simili a quelle di uno dei due acroteri angolari provenienti sempre dal teatro.
L’orlo verticale del parapetto riporta a rilievo un candelabro al di sotto del quale, all’interno di due riquadri, compaiono rispettivamente un ippocampo ed un albero con appesi ad un ramo un tirso ed un pedum.
Il materiale lapideo di cui è costituita il pezzo, che si è identificato con chiarezza grazie al recente restauro, è un calcare di origine metamorfica di struttura cristallina, probabilmente marmo lunense, di colore bianco uniforme, con numerose striature grigie.
Per quanto attiene i dati sulla lavorazione sono ben visibili alcune parti che lasciano in evidenza le tracce degli strumenti impiegati; alcune piccole aree intorno al grifone, su entrambi i lati, mostrano i sottili segni paralleli e incrociati caratteristici della gradina; le ali e il dorso del grifone mostrano in buona parte della superficie segni di lavorazione a scalpello, usato sia di piatto che di taglio.
Il trapano è impiegato nella definizione della volute della coda.
Nelle zone in cui la superficie del marmo risulta meno compromessa è ancora apprezzabile il buono stadio di levigatura, eseguita probabilmente con pietre abrasive e successivi passaggi di polveri abrasive via via più sottili.
I bordi del lato B della transenna, che dovevano essere coperti dalle strutture del teatro, sono stati lasciati ad uno stadio iniziale di sbozzatura e presentano infatti evidenti segni di raspa.
I grifoni raffigurati sul parapetto lanuvino sono stati accostati ai grifi alati scolpiti sul fregio del tempio di Antonino e Faustina nel Foro Romano seguendone la cronologia che si può far risalire tra il 140 ed il 160 d.C.
Via Astura e mura latine
Il nome proprio della via è “Antiatina”, perché Antium è il centro da cui essa partiva.
Ed infatti visto che è certo il luogo di approdo e di smistamento svolto da Anzio a partire dall’VIII sec. a.C. è altrettanto probabile che ciò abbia comportato la realizzazione di un’arteria che con percorso Nord-Sud andava a raggiungere l’interno della regione nel punto di Lanuvio, situato in una posizione intermedia rispetto a tutte le direttrici delle antiche rotte del Lazio centro-meridionale.
La via fu interessata da tutta quella serie di vicende che coinvolsero Anzio e Lanuvio (guerra tra i Volsci e i Romani V-IV sec. a.C.) e le vicende di Coriolano, ed aveva un’importanza fondamentale dal punto di vista culturale ed economico poiché univa Antium a Satricum ed a Lanuvium per terminare presso il XIX miglio della via Appia.
Sappiamo anche che la via era, nel I sec. a.C., praticata da Cicerone, come lui stesso dice nelle varie lettere ad Attico, per recarsi nei suoi possedimenti sulla costa, nella zona di Astura ( per esempio EP. Ad Att. XIV,2: “ In tusculanum hodie, Lanuvi cras, inde Asturae”).
Lo stato di conservazione attuale non è buono; tratti significativi sono nel Comune di Lanuvio: 50 mt. in via delle Grazie; altri 80 mt. in ottimo stato di conservazione in proprietà Galieti; recentemente è stato messo in luce un buon tratto della stessa a circa 6 Km. dal paese, dove si nota che la pavimentazione non è uniforme, in quanto alcuni basoli presentano evidenti tracce di usura causata dalle ruote dei carri, altri hanno un pessimo stato di conservazione, altri, invece, sono pressoché intatti.
Il monumento più interessante che troviamo lungo il percorso della strada è Ponte Loreto.
Lungo la via Astura si segnalano, tra Largo Alberto Galieti e la chiesetta delle Grazie, le grandiose mura poligonali, cosiddette mura latine. Confronti con altre cinte murarie dell’area laziale fanno ipotizzare come datazione più plausibile la fine del V inizi IV sec. a.C.. Avevano la funzione sia di difendere l’antica Lanuvium dagli attacchi esterni sia di costituire il primo livello terrazzato della cittadina.
La tecnica usata per la loro messa in opera è quella dell’Opus quadratum pseudoisodonum; i blocchi in pietra albana non sono posti in maniera regolare, ma seguono l’andamento ondulato del piano stradale di fondazione.
La media ortostati è molto imponente: mt. 1,10-1,30 da che ne è derivato di poter parlare di tecnica megalitica o ciclopica.
I blocchi furono cavati dal banco superficiale di peperino, la loro fattura rozza ed irregolare fa supporre che l’opera muraria sia stata eseguita in tempi brevi e da maestranze lanuvine.
Sono visibili in molti blocchi delle cavità per l’inserimento dei ferrei forcipes, ossia delle grosse tenaglie che permettevano il sollevamento dei blocchi stessi.
Il teatro romano
L’angolo N-W del Castello medioevale di Lanuvio poggia sui resti dell’Antico Teatro romano.
Essi vennero alla luce nel 1831, in occasione dei lavori effettuati dalla famiglia proprietaria. Un anno dopo si recò sul luogo una Commissione Generale Consultiva delle Belle Arti, allo scopo di esaminare, come venne detto, “le antichità quivi trovate”, per accertarne la natura. I tre consiglieri di detta commissione, G.Valadier, A.Nibby e L.Griffi, concordarono nel sostenere che le rovine in oggetto fossero appartenute al Teatro dell’antica Lanuvium, mentre un quarto consigliere, l’avvocato Fea, rimase sempre scettico “se dovesse chiamar (quelle rovine) Teatro o no”.
Lo studio più completo dei resti architettonici, però, fu compiuto in seguito da G.Bendinelli.
In Via A.De Gasperi, ex Viale Umberto I, è visibile per circa 8 metri e mezzo il muro di fondo della scaena che risulta in perfetto allineamento con il muro della fortificazione medioevale. Nel suo sviluppo a semicerchio, con la scaena, il postscaenium e la cavea, il Teatro viene ad interessare tutto l’angolo della fortificazione. Il tratto esterno del muro della scaena è conservato per 5 filari, mentre ne restano ben 9 interrati; il tutto raggiunge l’altezza di quasi 10 metri.
La dimensioni del teatro, in realtà alquanto modeste per una città quale Lanuvium, sono da paragonarsi a quello di Ferentino nel Frusinate.
La datazione della sua costruzione è stata posta da G.Bendinelli nell’età augustea.
Interessanti sono i resti marmorei pervenutici: numerosi frammenti in marmo di trabeazioni e di cornici frontonali e parte terminale di una transenna in marmo con un grifo alato.
Nel 1865 furono rinvenuti due frammenti epigrafici di cui quello più completo, sebbene mutilo, attesta molto bene l’attaccamento degli antichi lanuvini a questo monumento, che avevano voluto restaurare a proprie spese.
Le Ville “Ad Bivium”
La zona extra-urbana di Lanuvio, situata sotto Colle S. Lorenzo (l’antica acropoli), ha restituito in diverse occasioni resti consistenti di impianti residenziali privati che, posti al di fuori delle mura, attestano una progressiva espansione dell’area urbana verso valle: nel 1991-1993 due di essi sono stati riportati alla luce nell’area compresa tra il cimitero e il bivio in cui convergono la via Laviniense e la via Appia. Il primo impianto, tagliato dalla via Laviniense, occupa oggi una superficie di oltre 6000 mq, su un pianoro che si affaccia sulla sottostante vallata in direzione del mare. L’edificio è costituito da una zona residenziale e di rappresentanza (vani a, n, q) gravitante su un vasto atrio (c) e su un giardino peristilio con vasca centrale (f), e da un’area rustica situata nel settore più settentrionale (stanze p, r-w).
Le rovine rivelano una complessa storia edilizia. Gli ambienti situati a nord e a sud dell’atrio (forse dei cubicula?), in gran parte pesantemente manomessi dai lavori agricoli (ambienti q, n, g, g1), conservano (vani a, b, l, h) parte degli originari pavimenti a mosaico bianco e nero, con motivi decorativi geometrici (seconda metà del I sec. a.C.), tagliati da muri in opera vittata di epoca tarda (IV sec. d.C.), relativi a un ampliamento dell’atrio: in tale occasione il pavimento a mosaico di quest’ultimo venne sostituito da uno in opus sectile, a lastrine rettangolari, di cui si sono trovate solo le impronte. Anche il tablino (i) in età tarda venne manomesso, tagliato da un’abside, che ha parzialmente ricoperto l’originaria decorazione musiva con un emblema a tralci d’edera, mentre il muro di separazione dell’atrio ha quasi completamente distrutto l’originaria soglia decorata con un motivo ad archi, timpani e merli.
Nella pars rustica l’ambiente (t1), la cui realizzazione tarda ha parzialmente alterato i vicini vani (g) e (g1), è da identificarsi con un cortile aperto, pavimentato con lastre di peperino. A nord del peristilio (f), con vasca centrale in opera reticolata rivestita in cocciopesto, si conservano un complesso sistema di pozzi, canalette e vaschette e una serie di ambienti rettangolari (r, s, u, v, y, w, z), mantenuti solo a livello di fondazioni, per i quali è ipotizzabile un uso rustico e non abitativo.
Il settore residenziale della villa, sostenuto a S da un muro di terrazzamento in opera cementizia, sovrasta un livello inferiore formato da un ampio spiazzo aperto di forma trapezoidale, privo di pavimentazione, in cui si conservano tre basi quadrangolari di cementizio. A S si sviluppano alcuni piccoli ambienti, il cui primo impianto risale all’età repubblicana, con muri in opera incerta, reticolata e riprese in vittato, decorazione pittorica e pavimenti in tessellato di cotto, in scutulatum, a mosaico geometrico e floreale. Anche qui la presenza di risarciture in opera vittata e di affrettati restauri pavimentali che non hanno tenuto conto dei precedenti schemi decorativi, testimonia una fase di IV sec. d.C.
Alcuni di questi vani sembrano avere una funzione di servizi (cucina, forse un piccolo bagno privato).
Il complesso si affaccia a est sulla sottostante vallata, delimitato da due muri in opera quadrata di peperino, tra loro paralleli e con andamento a linea spezzata che forma un angolo ottuso: quello più esterno ripreso da un muro in opera reticolata sul quale si conserva un lacerto di pittura di primo stile a finta opera quadrata, che forse ricopriva tutto il muro; parallelamente ad essi corre un terzo muro, conservato solo a livello di fondazione, affiancato da tre basi quadrangolari di cementizio: forse quanto rimane di un portico a colonne o pilastri, che costituiva su questo lato il prospetto della villa.
L’insediamento residenziale presenta almeno tre principali fasi costruttive: fine II sec. a.C. (strutture in opera incerta), i pavimenti in signino e, probabilmente, il doppio muro in opera quadrata del lato orientale); fine I sec. a.C./piena età augustea (muri in opera reticolata e i pavimenti a mosaico bianco e nero degli ambienti a, b, h, i, l, n); IV sec. d.C. (muri in opera vittata, l’ampliamento dell’atrio ( c) con la sostituzione del pavimento a mosaico con quello in opus sectile, la realizzazione dell’abside nel tablino l e alcune riprese grossolane dei pavimenti a mosaico).
Poche decine di metri a nord di questa villa se ne è intercettata un’altra, già pesantemente danneggiata in passato da sbancamenti e scassi agricoli, della quale si conservano ora sei ambienti quadrangolari, pertinenti alla pars urbana, ovvero residenziale, ornata da pavimenti in battuto (fase repubblicana con muri in opera reticolata) e a mosaico (piena età imperiale). Particolarmente interessante il mosaico di un ambiente di circa m 4,30 x 4,80, probabilmente un triclinio, con tappeto centrale circondato da una fascia di girali bianchi su fondo nero, decorato con ovali alternati a pelte e rombi concavi; all’interno degli ovali sono rappresentati animali, ortaggi e suppellettili per convivio (aragosta, pavone, pesci, lepre (?), un gallo che becca un serpente, uccelli, colombe, carciofi, vasi).
Si tratta del motivo degli xenia, un genere attribuito da Plinio al pittore Peirakos, in cui erano rappresentati gli oggetti e i cibi che l’ospite offriva agli amici in occasione delle cene; costituiva quindi anche un’esternazione della ricchezza di cui godeva il padrone di casa. Un’altra stanza, purtroppo assai danneggiata e forse identificabile con l’atrio, conserva un mosaico molto lacunoso, databile agli inizi del III sec. d.C., in cui si può leggere un’iscrizione, mutila, contenente formula augurale: …[ aug]ustalis / in.g.di.te/ …ser.bet. (“Augustale, gli dei ti conservino in gaudio (?)”).
La menzione dell’Augustale, membro di un collegio addetto al culto dell’imperatore, potrebbe identificare l’edificio con la sede del collegio, insediatosi in una casa privata.
L’abitazione romana Box
La forma più comune di impianto residenziale in età romana è quello che prevede una struttura composta da un protyrum, l’ingresso aperto sulla via, dal quale si accede all’atrium – il primo cortile a cielo libero – o al cavaedium – il cortile coperto – attorno al quale sono disposte le stanze destinate alla vita sociale e agli ospiti, i locali per gli schiavi, i depositi per le provviste, gli ambienti di servizio e la cucina.
Al centro dell’atrium, a causa dell’inclinazione delle falde del tetto, si trova una larga apertura quadrata, detta compluvium , che fa convergere l’acqua piovana nell’impluvium, il bacino di forma regolare posto al centro del cortile stesso.
Dall’atrio, attraverso le fauces, le porte di accesso, si entra nel peristylium, il cortile più interno e più grande, centro della vita familiare, attorno al quale si trovano i cubicula (le camere da letto), il triclinium (la stanza da pranzo), il tablinum (la sala di ricevimento) e l’edicola dedicata al culto dei Lari e dei Penati.
L'anello di Enea
Ai viaggiatori sprovveduti che, distaccandosi dal consueto itinerario del Grand Tour, si spingevano fino al lembo SO dei Colli Albani, i “terrazzani” della cittadina, che fino al 15 Ottobre del 1915 si sarebbe chiamata Civita Lavinia, mostravano con orgoglio un piccolo anello di ferro confitto in una delle torri perimetrali del castello medievale. Anello che un’antica tradizione popolare consolidatasi nel corso del XVII secolo correlava a Enea sostenendo che questi, al suo arrivo nel Lazio, vi avrebbe ormeggiato la nave (NIBBY 1848, vol. 2, p. 148; TOMASSETTI 1975, vol. II, p. 334).
Se l’ “anello di Enea” poteva costituire agli occhi degli ingenui turisti del XVIII e XIX secolo una prova tangibile dell’alta antichità di Lanuvio, gli eruditi avevano da tempo soffermato la loro attenzione sulla vasta mole di testimonianze epigrafiche e archeologiche disseminate nel suo territorio, la cui interpretazione, sorretta da un attento vaglio critico delle disparate fonti letterarie correlate alla cittadina, rese possibile nell’arco di pochi decenni una ricostruzione attendibile della sua identità storica e della sua realtà topografica (a lungo inconsapevolmente confuse con quelle relative a Lavinium, oggi identificata con Pratica di Mare).
Tale ricostruzione, quasi inevitabilmente, finì col privilegiare le attestazioni relative all’arcaico culto di Giunone Sospita e quelle connesse alla romanizzazione, trascurando e spesso accantonando quanto via via emergeva delle fasi protostoriche.
Sotto quest’ultimo punto di vista, infatti, Lanuvio, pur vantando nobili origini che la ricollegavano alla saga troiana attraverso Diomede, suo presunto fondatore (APPIANO, Bellum civile, II, 20), e la includevano nell’antichissima lista dei populi della lega Albana (DION. HAL., V, 61, 3), non beneficiò di quell’interesse che, a partire dal 1817, aveva investito le “antichità albensi”.
Monte Giove
Sul colle di Monte Giove si conservano le tracce di un insediamento fortificato di incerta interpretazione e datazione. Sulla cima del colle si conserva un terrazzamento rettilineo, lungo circa 200 metri e alto 3 metri, costituito da un costone di tufo tagliato verticalmente e dalla probabile funzione difensiva. Questo costone era rinforzato da molti blocchi di peperino, alcuni dei quali si conservano oggi sul posto.
Christian Mauri ha interpretato tali resti come pertinenti ad una fortificazione del VI secolo a. C. e ipotizza che originariamente lungo questa terrazza si aprisse una delle porte della città, poiché vi compare una stretta apertura praticata nella roccia da cui si sale verso il casale moderno.
Nelle immediate vicinanze c’è un ambiente ipogeo scavato nel tufo con pianta a croce latina, di incerta datazione e forse utilizzato per la raccolta delle acque e facente parte del sistema di approvvigionamento idrico della città ( oggi è stata trasformata in una cantina ).
Nel Medioevo le strutture murarie di età romana vennero erroneamente interpretate nei resti di un tempio romano e nacque così il toponimo di Monte Giove.
Nel corso del Cinquecento sulla cima del colle venne eretto il bel Casale di Monte Giove, oggi proprietà del conte Raimondo Moncada, gravemente danneggiato durante i bombardamenti del 1944 ed in seguito ricostruito. Nel vicino roseto vennero murati dal Busiri Vici molti frammenti romani provenienti dalla collezione privata dei Moncada a Roma. Desta curiosità notare dalla foto satellitare il confine perfettamente circolare della tenuta cinquecentesca, il quale gira tutto intorno al colle.
Alcuni topografi, tra cui il Nibby identificano nell’odierna località Monte Giove il sito dell’antica Corioli, cittadella dei Volsci, distrutta dai Romani nel 491 a.C.
Secondo gli annali romani, Corioli fu conquistata una prima volta, assieme a Longula e Polusca, nel corso di una campagna militare contro i Volsci di Anzio. Nel 493 a.C., il console romano Postumio Cominio invase il territorio dei Volsci e Corioli venne conquistata dopo un breve assedio, grazie al valore militare del giovane patrizio Gneo Marcio, soprannominato “Coriolano” in seguito a questa impresa. Gli abitanti di Corioli durante l’assedio, avendo sentito dire che i Volsci di Anzio erano in procinto di portare loro aiuto con un’armata numerosa. Sicuri di sé aprirono imprudentemente le porte della città per lanciarsi contro i Romani; i quali respinsero i Coriolani ed approfittando della porta lasciata aperta irruppero nella città e la saccheggiarono. L’occupazione strategica del piccolo centro di Corioli garantiva ai Romani l’accesso alla pianura pontina, attraverso un varco creato tra i territori di Aricia e di Ardea.
L’anno dopo Corioli venne nuovamente riconquistata dai Volsci, assieme Satrico, Longula, Polusca e Mugilla, grazie all’aiuto dello stesso Coriolano esule da Roma. Corioli venne infine conquistata nuovamente dai Romani, anche se non è noto quando e le modalità delle conquista. Livio riferisce delle definitiva conquista di Corioli indirettamente: alcuni decenni dopo il suo territorio, conteso fra Aricini e Ardeati, divenne ager publicus dopo una pubblica protesta di un vecchio soldato, Publio Scapzio.
L’impianto residenziale di età romana di via Gramsci
Nei mesi di Aprile e Giugno 2008, sono state condotte a Lanuvio tra via Gramsci e via S. Maria della Pace, sotto la direzione della Soprintendenza per i beni archeologici del Lazio, delle indagini archeologiche in condizioni d’emergenza, dovendosi realizzare un parcheggio multipiano.
La documentazione di scavo è ancora in corso di studio, tuttavia è opportuno presentare le strutture e le pavimentazioni emerse nel corso delle indagini.
Si tratta di una serie di ambienti pertinenti, con buona probabilità, ad un impianto residenziale extra moenia di età repubblicana.
Una pianta archeologica dell’area redatta da Alberto Galieti, pubblicata nel 1953 sul periodico Notizie e scavi dell’antichità, mostra chiaramente come le strutture non fossero note allo studioso; la pianta riporta un tratto di 200 mt. di una strada romana, purtroppo non più visibile, denominata dal Galieti via ardeate-lanuvina, poiché lo studioso riteneva che la via partendo dal foro dell’antica Lanuvium (ubicato nell’attuale Piazza Carlo Fontana) giungeva fino ad Ardea.
Ai lati della strada vengono riportate nella pianta una serie di sepolture, datate al I-II sec. d.C., e delle strutture murarie di incerta interpretazione. La pianta e lo studio del Galieti mostrano chiaramente come quest’area, nonostante fosse quasi a ridosso del foro dell’antica Lanuvium, era comunque da considerarsi extraurbana.
Dalla sezione dell’impianto residenziale si notano una serie di blocchi in opera quadrata che dovevano costituire la fronte sostruttiva della struttura ad Ovest, mentra la planimetria mostra come gli ambienti ad Est della struttura, che sono ad un livello più alto dell’attuale via S. Maria della Pace, siano stati completamente distrutti dalla realizzazione della strada moderna e dai servizi ad essa connessi (conduttura idrica e impianto fognario).
Iniziamo dunque a descrivere i vari ambienti che costituiscono l’impianto residenziale:
Il cosiddetto impluvium
L’ambiente è costituito da una serie di lastre in peperino (90×138 cm) con andamento concavo.
L’impluvium presenta sui lati Nord, Est, Sud, una struttura muraria in opera incerta, che si conserva per un’altezza massima di 42 cm., rivestita da intonaco bianco e che, visto l’orientamento diverso rispetto ai lastroni in peperino, deve essere successiva.
L’angolo Nord-Est dell’ambiente è occupato dalla bocca di una cisterna (diametro 39 cm.; profondità mt. 5) realizzata in peperino e con un foro per immettere l’acqua in eccedenza all’interno dell’impluvium. In corrispondenza del foro vi è una canaletta che aveva la funzione di far defluire l’acqua al centro dell’ambiente e, mediante un secondo foro, ubicato all’angolo Sud-Ovest del pavimento in lastre di peperino, veniva incanalata in un ambiente sottostante di cui allo stato attuale non rimane traccia.
A Nord dell’impluvium abbiamo due ambienti costituiti dal medesimo cocciopesto, di impasto giallognolo con inclusi ceramici di piccole e medie dimensioni;.un blocco squadrato in peperino in posizione angolare e una soglia in peperino a Est del blocco li delimita.
L’ambiente compreso tra il pozzo e il vano settentrionale ha uno stato di conservazione non buono soprattutto in corrispondenza del crollo su di esso di tre blocchi di peperino squadrati, pertinenti con buona probabilità alla fronte costruttiva dell’impianto.
Il pavimento di cocciopesto del secondo ambiente si presenta, invece, in buono stato di conservazione, con l’eccezione di alcune fessurazioni nella parte settentrionale, che comunque non compromettono il generale discreto assetto della malta. Circa 1 m dal muro meridionale, in prossimità della paratia di micropali, si rinviene un conglomerato di cemento moderno perfettamente circolare, del diametro di circa 15 cm, che insiste sulla pavimentazione. Si tratta probabilmente di un carotaggio colmato successivamente dal cemento della paratia di micropali. L’ambiente presenta sia sul lato S che su quello ad E resti di una struttura muraria in opera incerta;
il muro ad E, con andamento N-S, si interrompe a 1,30 m dall’angolo con uno stipite regolare di scapoli di tufo alla base e spezzoni di tegole nell’alzato.
Internamente all’ambiente il setto mostra un paramento in opera incerta, esternamente è rivestito da intonaco bianco parzialmente in opera. Allineato, distante circa 0,80 m, si individua lo stipite corrispondente nella prosecuzione della muratura: anch’esso costituito da spezzoni di tegole, mostra in opera parte del rivestimento di intonaco.
La pavimentazione in cocciopesto si interrompe in modo lineare in corrispondenza dell’apertura, dove probabilmente in origine era alloggiata una soglia.
L’apertura della soglia immetteva in un ulteriore ambiente ad E, di cui rimane un piccolissimo lembo del pavimento in cocciopesto con tessere calcaree applicate disposte, forse a formare un motivo geometrico.
A Nord lo scavo ha restituito, a circa due metri più in basso rispetto alle quote degli ambienti sopra descritti, due strutture murarie in opera reticolata con andamento E-O e un pavimento in cocciopesto. Sopra il pavimento sono stati trovati diversi frammenti d’anfora perlopiù inquadrabili cronologicamente al II sec. d.C. e numerosi mattoncini in laterizio pertinenti ad un pavimento in opera spicata. Tali ritrovamenti farebbero propendere per questa zona degli ambienti di servizio della villa.
Osservazioni conclusive
Da quanto emerso dalle osservazioni preliminari possiamo stabilire che le strutture rinvenute dimostrerebbero, il condizionale e d’obbligo, almeno due fasi edilizie: alla prima, che si può far risalire al II sec. a.C., dovrebbe essere pertinente il pavimento a lastre di peperino che compone l’impluvium, mentre ad una seconda fase che può essere collocata sul finire del II – metà I sec. a.C. possiamo attribuire i rifacimenti degli altri ambienti. Le strutture di età romana a Nord dello scavo, pertinenti agli ambienti di servizio, che mostrano un’occupazione dell’area fino ad epoca tarda, dovrebbero collocarsi cronologicamente alla fine del periodo repubblicano.
La Villa in località Crocette
In località Crocette, all’interno dell’azienda agrituristica il Giardino di Giupi, si conservano importanti strutture, in opera reticolata, pertinenti ad un impianto residenziale databile nella sua prima fase ad età tardorepubblicana.
Di questo impianto, noto già da uno studio del Galieti(1), resta un ambiente con pianta ad “L” in opera reticolata e con copertura a volta, la cui funzione non è stata ancora del tutto chiarita.
Attigui alla struttura di età romana con pianta ad “L” si trovano, inglobati all’interno di un casale ottocentesco, altre porzioni di muro in opera reticolata che vennero utilizzati come fondazione del casale.
Le strutture in opera reticolata, pertinenti allo stesso impianto residenziale, si conservano per circa un metro di altezza su tutti e quattro i lati del casale e la loro datazione va fatta risalire, con buona probabilità, alla metà del I sec. a.C..
1) A. Galieti, La villa in località “Crocette”, in C. Lampe-R. Mammucari, Arthur John Strutt, pittore a Roma e archeologo a Lanuvio, Velletri 1987, p. 33 ss.
Le ville suburbane dell'ager Lanuvinus
L’odierno centro urbano di Lanuvio insiste sul sito dell’antico Lanuvium, ben identificato quest’ultimo grazie alle testimonianze di Strabone e di Appiano.
L’ antico ager lanuvinus doveva coprire un’estensione di ca. 70 km2 rispetto ai 44 km. del moderno comune di Lanuvio; l’antica città confinava a Nord con il territorio di Aricia (od. Ariccia), ad Est con Velitrae (od. Velletri), ad Ovest con Ardea e di nuovo con Aricia, mentre a Sud si spingeva fin verso i territori di Antium (od. Anzio) e Satricum (od. loc. Le Ferriere nella pianura pontina).
Il soggiorno, specialmente nella parte collinosa a nord della città, dove emergono resti cospicui di impianti residenziali di età romana, fu caro agli antichi, così come si riscontra per molti siti dei Colli Laziali, considerati eccellenti località di otium.
Tutto ciò si determinò sia per la favorevole posizione delle colline lanuvine, poste di fronte al mar Tirreno, sia per la salubrità del clima, tanto apprezzato e lodato dall’imperatore Marco Aurelio, che qui risiedeva, per la freschezza delle ultime ore della notte.
Per il fatto poi che sui pendii dei colli lanuvini si potessero comodamente costruire le ville ed i predii e praticare l’agricoltura con successo, questi vennero regolarizzati, secondo l’uso di allora, mediante ampi terrazzamenti, particolarmente nel versante Est del colle sul quale sorse l’antica città.
Nelle opere di Svetonio, Cicerone, Giulio Capitolino abbiamo dei cenni su alcuni proprietari di ville nell’ager lanuvinus anche se oggi, purtroppo, ci sfuggono gli elementi per poterne identificare l’ubicazione, ad eccezione della villa imperiale degli Antonini (per approfondimenti sulle fonti antiche e per un inquadramento generale si veda: L. Attenni, Frammenti d’Affresco con scene d’iniziazione dionisiaca, Velletri 2002, p. 11 ss.).
Nella lettera XIII, 46 inviata da Cicerone ad Attico, l’oratore attesta con sicurezza l’esistenza di un “lanuvinum L. Cornelii Balbi (Majoris) et M. Aemilii Lepidi”; sempre Cicerone ci informa che dopo la morte di Cesare, avvenuta alle idi di marzo del 44 a.C., il cospiratore M. Giunio Bruto si era recato nella sua villa lanuvina per poter controllare lo svolgersi delle vicende, sperando che avvenisse, in suo favore, un mutamento dell’opinione pubblica.
Ancora da Cicerone, infine, proviene la notizia della nascita del celebre pantomimo Roscio “in Solonio, qui est campus agri Lanuvium”, da padre plebeo addetto ai lavori agricoli in quel fondo; è ignoto a chi appartenesse la proprietà, in cui la famiglia era dipendente e dove l’attore trascorse l’infanzia.
Da Svetonio sappiamo che Augusto “ex secessibus praecipue frequentavit maritima insulasque Campaniae, aut proxima Urbi oppida, Lanuvium, Praeneste, Tibur”. Giulio Capitolino ci testimonia che Aurelio Fulvo, padre dell’imperatore Antonino Pio, fosse proprietario di una villa nel territorio di Lanuvium, dove vi nacque, il 19 settembre dell’anno 86 d.C., lo stesso Antonino.
Successivamente Elio Lamprido testimonia invece che nel 31 agosto del 161 d.C. Annia Faustina, figlia di Antonino Pio e moglie di Marco Aurelio, vi dette alla luce col gemello Antonino, poi morto a 4 anni, Commodo, più tardi imperatore, che vi dimorò spesso e combatté nell’anfiteatro di Lanuvium come gladiatore.
Un’ultima notizia, sebbene indiretta, proviene dall’attestazione a Lanuvium nel 202 d.C. di una vexillatio di vigili: istituzione finalizzata alla tutela dell’ordine pubblico, che normalmente si attuava nei luoghi di residenza degli imperatori (p. es. ad Ostia). È quindi possibile che la villa, dopo la morte di Commodo nel 192 d.C., continuò ad essere frequentata per lo meno fino al principio del III secolo.
L’identificazione sul terreno della villa imperiale si basa sulla presenza di ruderi sparsi su una estensione notevole a destra della via Appia, al XVIII-XIX miglio da Roma; nello stesso sito, assieme ad altre sculture, si sono ritrovati nel 1701 dei busti raffiguranti personaggi della famiglia degli Antonini. È noto infatti come simili proprietà fossero dislocate generalmente soprattutto lungo le varie arterie stradali, che a Lanuvium si componevano della via Appia e della cosiddetta Ardeate-Lanuvina e via Astura, insieme ai loro diverticoli.
Il complesso residenziale imperiale si estendeva per un’area molto ampia a sud dell’Appia antica, che si poteva raggiungere per mezzo di un diverticolo con andamento NO-SE, recentemente tornato in luce a seguito di lavori di sbancamento per la costruzione di un quartiere di edilizia popolare.
La Villa degli Antonini è a tutt’oggi l’unica che presenti sul terreno delle prove che conducono alla sua identificazione con un complesso noto dalle fonti letterarie.