Antonino Pio – Imperatore romano
Antonino Pio (86 d.C.-161 d.C.) Imperatore Romano
T. Aurelius Fulvus Boionius Arrius Antoninus
Nato a Lanuvium, 19 settembre 86 – Muore a Lorium il 7 marzo 161 sposato con Annia Galeria Faustina (110-115 d.C.)
Membro di una ricca famiglia della gens Aurelia, originaria di Nimes, il padre era senatore, nel 120 era stato console, poi juridicus della Campania, una delle quattro giudicature istituite in Italia da Adriano, governatore in Asia e infine membro del consilium principis quando ritornò a Roma.
Adottato da Adriano nel 138 con il nome di T. Aelius Adrianus Autonimus, alla sua morte, nello stesso anno, fu riconosciuto imperatore ed ebbe dal Senato il nome di Pio.
Perfezionò il Vallo di Adriano per rendere sicuri i confini della Britania, per onorare la memoria della moglie Faustina costruì un tempio sulla via Sacra e istituì una fondazione benefica,in aiuto delle fanciulle povere e si dimostrò tollerante con i cristiani. Profondamente attaccato alle antiche tradizioni, lasciò al senato larga autorità e soppresse la divisione dell’Italia in quattro distretti restituendola all’amministrazione senatoria.
Ligio alla religione e agli antichi riti patri, celebrò splendidamente nel 148 il novecentesimo anniversario della fondazione di Roma; sensibile ai problemi sociali, curò numerosi “rescritti” la retta applicazione delle leggi e l’educazione della gioventù col fondare, anche nelle province, luoghi di studio e di assistenza; diede particolare diffusione alle istituzioni alimentari ed emise editto che dichiarava reo di omicidio il proprietario che avesse ucciso il proprio servo, dando così personalità giuridica anche agli schiavi, per la prima volta nella storia di Roma. Non avendo figli adottò Marco Aurelio e Lucio Vero che diventarono imperatori.
«Nobile, mite, indulgente, savio, lontano dagl’impeti della gioventù e dal torpore della vecchiaia » lo aveva giustamente definito Adriano presentandolo ai senatori; né Antonino smentì mai il giudizio del padre adottivo. Egli aveva ingegno e cuore, amava l’ordine e l’economia, non era agitato da passioni, alla vita errabonda del suo predecessore preferiva la vita sedentaria, alla guerra la pace, alle grandi riforme una tranquilla amministrazione della giustizia e delle finanze. Non aveva però grandi vedute, gli mancava la conoscenza delle condizioni in cui si trovava lo Stato e della politica estera non aveva un’adeguata preparazione. Egli aveva tutti i requisiti per governare ottimamente una vecchia e tranquilla provincia, era privo, di moltissime delle qualità che sono necessarie al capo di un impero così vasto che per buona fortuna Adriano gli lasciava saldo e pacificato.
Morto Elio Adriano, Antonino ne portò a Roma le ceneri e chiese che al suo predecessore fosse tributata l’apoteosi; ma il Senato si oppose e minacciò di condannare di Adriano la memoria e di conseguenza tutti gli atti del defunto imperatore. L’opposizione senatoriale non era certamente dovuta soltanto agli atti di crudeltà commessi da Adriano nei suoi ultimi anni, ma anche alla politica di questo imperatore, il quale nell’intento di conciliare il romanesimo e l’ellenismo e dare impulso alle opere di pace, si era messo in contrasto con l’aristocrazia animata tutta da un rinnovato spirito di romanità.
Antonino però tenne duro e, forte dell’aiuto dell’esercito, riuscì a vincere l’opposizione del Senato. Questo forse si lasciò disarmare dai buoni propositi del nuovo imperatore, che, per la sua bontà e il suo spirito di giustizia, si ebbe poi il titolo di Pio.
Fin dai suoi primi atti Antonino riuscì a conciliarsi le simpatie del Senato: non prese provvedimenti contro coloro che si erano opposti all’apoteosi di Adriano, propose un’amnistia in favore di coloro che erano stati condannati dal suo predecessore, protestò di voler trattare col massimo rispetto i senatori e di governare con grande indulgenza. I suoi propositi furono mantenuti: quando un certo Attilio Tiziano per aver cospirato contro di lui, fu dalla Curia mandato solo in esilio, Antonino non volle che se ne cercassero i complici e quando un certo Prisciano, accusato anch’egli di congiura, si tolse la vita per non essere condannato, Antonino molto generosamente ne soccorse il figlio.
Antonino Pio non portò alcuna innovazione nella politica, cercò di temperare quella del suo predecessore in quello che contrastava con lo spirito e gli interessi del Senato. Uno degli atti meno felici di Adriano era l’aver considerato l’Italia alla stregua delle province, per questo, secondo i più, Antonino rimise la penisola nella precedente situazione di privilegio ed abolì le quattro giudicature e restituì all’Italia l’oro che era stato offerto per la sua adozione.
In tutti i rami dell’amministrazione statale Antonino fornì prova di grande rettitudine e di buonsenso. Seguendo le orme di Adriano, curò molto la giustizia, assistito come il suo predecessore dai più illustri giureconsulti. Elevò la condizione della donna, decretando che il marito potesse punire l’infedeltà solo nel caso in cui lui si fosse mantenuto fedele alla moglie, migliorò la condizione degli schiavi, deliberando che i padroni che uccidessero i loro schiavi incorressero nelle pene imposte agli omicidi, abolì la confisca dei beni paterni per i figli dei funzionari condannati per concussione, a patto però che essi restituissero alle province quello che il padre aveva tolto e usò molta severità verso coloro che nella riscossione dei tributi si rendevano colpevoli di eccessivo rigore.
Sotto di lui il bilancio dello stato fu floridissimo, tanto è vero che alla morte dell’imperatore si trovarono nelle casse oltre due miliardi e mezzo di sesterzi. Né Antonino era stato avaro: aveva, come abbiamo detto, restituito all’Italia tutto l’oro coronario, metà ne aveva restituito alle province, aveva poi fatto rilevanti distribuzioni di denaro al popolo e ai soldati, aveva speso considerevoli somme in feste e spettacoli; e nella solenne celebrazione del nono centenario di Roma, aveva ridotto le imposte e nel 148, procedendo alla revisione di esse, aveva condonato ai contribuenti gli arretrati di quindici anni; si era mostrato generosissimo con Rodi e con l’Asia Minore, devastate da un terremoto, con le città di Narbona, Antiochia e Cartagine danneggiate da incendi, e infine con la stessa Roma la quale aveva perso in un incendio circa trecentoquaranta caseggiati, era stata inondata dal Tevere ed era stata afflitta da una grave carestia e dalla rovina del circo durante i giochi apollinari in cui era perito più di un migliaio di persone.
A tutto ciò si aggiungano le spese sostenute da Antonino in opere pubbliche, le quali, se non possono paragonarsi a quelle fatte da Adriano, queste non furono poche. Costruì acquedotti, migliorò i porti di Puteoli, di Terracina e di Gaeta, aprì vie in Africa, nella Gallia, in Italia e nella Pannonia, innalzò un tempio al suo predecessore e ne portò a compimento il suo grandioso mausoleo, dove furono deposte le ceneri di Adriano, di Cejonio e poi dei figli e della moglie di Antonino, Faustina. Questa morì nel 141 e, sebbene non fosse stata di severi costumi, l’imperatore le fece dal Senato decretare l’apoteosi e innalzare un tempio sulla via Sacra; in memoria di lei fondò pure una pia istituzione a favore di fanciulle che presero il nome di Faustiniane.
L’impero di Antonino durò ventitré anni e per l’indole del principe sarebbe trascorso nella massima tranquillità se qua e là non fossero scoppiate delle rivolte e se l’insistenza dei nemici esterni e lo spirito guerriero della nuova aristocrazia non avessero costretto l’imperatore a brandire le armi.
Appunto per dar soddisfazione a questo spirito la Scizia e la Parzia furono ufficialmente considerate province romane e a Velogeso III fu rifiutato il trono d’oro conquistato da Trajano a Ctesifonte. Le rivolte si ebbero in Acaja, in Egitto e tra gli ebrei, e alcune guerre — di lieve entità — contro i Germani, gli Alani, i Baci, i Mauntam e i Britanni. Di quest’ultimo popolo diedero da fare i Briganti e più i Caledoni che minacciavano la linea di difesa stabilita da Adriano.
Il legato Quinto Lollio Urbino dovette combatterli, e riuscì a ricacciarli e portò il confine più a nord costruendo un vallo provvisorio tra Firth of Forth e Firt of Clyde, dov’era prima di lui era giunto Agricola.
Antonino Pio morì a Lorium in Etruria, a 12 miglia da Roma, il 7 marzo del 161, all’età di settantaquattro anni, dopo tre giorni di febbre. Il giorno stesso della sua fine, chiamò nella sua camera gli amici e i prefetti delle coorti pretorie, cui raccomandò Marco Aurelio: fece portare nella stanza di questo la statua d’oro della Fortuna e diede al tribuno, come parola d’ordine, il motto aequanimitas, poi si volse nel letto dall’altra parte come per dormire e si spense serenamente.
Fu ricordato per anni e anni come il “benefattore dell’umanità”; “il più santo di tutti i tempi”, “il più grande e visibile degli dei”.
Una cosa è certa: se proprio non visse come un Divino (essendo un uomo semplice), non visse certamente come un Satana.
Per trecento anni, quando si procedeva all’investitura di un nuovo imperatore si porgevano gli auguri al nuovo eletto con la formula “che tu possa essere come Antonino il Pio”.
Commodo – Imperatore romano
Lucio Aurelio Commodo, imperatore romano, nacque a Lanuvio, antica Lanuvium, il 21 agosto 160 e morì a Roma nel 192. Figlio di Faustina Minore e di Marco Aurelio, regnò dal 180 – 192 d.C.)
A Marco Aurelio successe lo stravagante figlio, Lucio Aurelio Commodo.
Egli aveva compiuto da pochi mesi diciannove anni, essendo nato il 21 agosto del 160. Se nelle fattezze somigliava al padre, Commodo era completamente diverso da Marco Aurelio nell’indole; fin da fanciullo aveva fornito prova dei suoi istinti malvagi ordinando che si gettasse nel forno un servo reo di avere riscaldato troppo l’acqua del suo bagno; di studi non aveva voluto saperne e si era dato con passione agli esercizi fisici; al salto, alla danza, ai giuochi e ai piaceri.
C’era anche lui a Vindobona quando morì Marco Aurelio; e assunto all’impero, pronunciò al campo alla presenza delle truppe l’elogio del padre, poi fece noto il suo proposito di tornare a Roma. Invano i suoi generali insistettero affinché la guerra, così bene iniziata, fosse condotta a termine: egli fu inesorabile e aderì sollecitamente alle proposte di pace che gli erano state fatte dai Marcomanni, dai Quadi e dai Buri.
Non a lui certamente si dovette se la pace fu conclusa a condizioni vantaggiose per i Romani, ma alla stanchezza del nemico che aveva subito dure sconfitte ed all’abilità dei suoi generali, cui il padre, morendo, lo aveva raccomandato. Erano fra questi i due Quintili, fratelli notissimi più per il loro valore e la concordia che regnava tra loro che per le grandi ricchezze; Salvio Giuliano, Claudio Pompejano, che aveva sposato Annia Lucilia, vedova di Lucio Vero, e il prefetto del pretorio Tarrutenio Paterno.
Nonostante l’opera di costoro i nemici s’impegnarono a restituire i disertori e i prigionieri; mentre i Marcomanni e i Quadi s’impegnarono a fornire truppe ausiliarie all’impero e a riunirsi soltanto una volta l’anno e sotto la sorveglianza di un centurione romano in un punto designato dalle autorità imperiali; i Buri accettarono di non risiedere o pascolare a meno di cinque miglia dal confine dacico.
Conclusa la pace, Commodo fece ritorno a Roma dove entrò trionfalmente. Con lui rinacquero le orge di sciagurata memoria neroniana o domiziana; e il potere cadde nelle mani di favoriti ingordi, fra cui sono degni di menzione il cubiculario Saotero e Figidio Perenne che alla morte di Marco Aurelio era stato dato come collega a Tarrutenio Paterno nella prefettura del pretorio.
Il rifiorire dei favoriti, i quali avevano l’interesse di accentrare nelle loro mani l’amministrazione dello stato e di abbassare l’autorità dell’ordine senatorio e dell’equestre, ruppe la concordia che gli Antonini avevano stabilito tra il principe e il Senato e portò come conseguenza una lotta tra i due ordini; inasprita del rifiorire degli avventurieri che si erano istallati alla corte; dunque una lotta che doveva naturalmente produrre congiure e persecuzioni.
La prima congiura di cui si abbia notizia sotto l’impero di Commodo fu capitanata da una sorella stessa del principe, Annia Lucilia. Fra i congiurati erano il marito Claudio Pompejano, Numidio Quadrato, che aveva in moglie un’altra figlia di Marco Aurelio di nome Annia Faustina, e il senatore Quinziano, genero ed amante di Lucilia.
L’incarico di sopprimere l’imperatore era stato dato a Quinziano che ne godeva l’intimità; ma il colpo fallì: prima di colpire, Quinziano mostrò l’arma al principe esclamando «te la manda il Senato ». Commodo schivò il colpo e, gridando aiuto ai suoi guardiani, riuscì a fare arrestare il senatore (183).
L’attentato ebbe un seguito di processi e di condanne: Lucilia fu relegata a Capri dove fu trucidata; Quinziano fu messo a morte; la medesima sorte toccò ad Unmidio Quadrato; Tarrutenio Paterno, a quanto pare, non aveva preso parte alla congiura, ma era detestato da Perenne che avrebbe voluto da solo avere il comando del pretorio.
In quel tempo fu assalito ed ucciso anche Saotero. Si sparse la voce che autore del delitto fosse Paterno e Commodo, senza dubbio aizzato da Perenne, lo esonerò dal comando dei pretoriani nominandolo senatore. Pochi giorni dopo però, accusato di aver cospirato contro il principe, fu arrestato e messo a morte. La stessa sorte subì Giuliano, comandante delle legioni della Germania.
Commodo non si curava degli interessi dell’impero: viveva nella reggia o nelle sue ville, in compagnia di numerose donnine, immerso nelle crapule e nelle orge, non commuovendosi alle sofferenze del popolo prodotte dalla carestia, dalla pestilenza e da un incendio che procurarono numerose vittime e gravi danni alla città.
Suoi divertimenti quotidiani erano i giochi, le corse sui cocchi, i combattimenti contro le belve e i gladiatori. Egli si produceva in pubblico come lottatore e si presentava nelle feste con il caduceo in mano, come Mercurio, o vestito alla foggia di Ercole con una pelle di leone sulle spalle e in mano una clava; quando prendeva parte ai giuochi gladiatori si faceva pagare dalla cassa degli spettacoli un milione di sesterzi. I senatori e i cavalieri assistevano agli spettacoli e temendo l’ira del principe inneggiavano a lui: «Gloria a Cesare, a Commodo-Ercole, Invincibile, Amazonio, sempre primo, sempre signore, Pio, Vittorioso».
Erano questi i titoli che l’imperatore si era dati e non i soli. Egli si faceva chiamare Felice Germanico Massimo, Sarmatico, Invitto, Superatore, Pacificatore del mondo, Nume trionfatore, Padre del Senato, Padre della Patria. Il palazzo per ordine suo, si chiamava commodiano, commodiano il Senato, così il popolo e il secolo, commodiano era l’esercito, commodiana la flotta. Roma prese il nome di Colonia commodiana.
Commodo assunse anche il titolo di Britannico per alcuni successi militari ottenuti in Britannia dalle legioni. Infatti, le guerre, seppure di lieve entità, non mancarono sotto il suo principato: i Romani dovettero sostenere lotte contro i Frisi in Germania, contro i Mauri in Africa, contro gli Ebrei e i Saraceni in Asia e contro bande numerose di ribelli capitanati da un disertore di nome Materno, il quale, sebbene sconfitto da Pescennio Sigro, passò dalla Gallia in Italia e marciò verso Roma, ma prima di arrivarci fu catturato ed ucciso.
Degna di nota più che le altre fu la guerra in Britannia, dove i barbari riuscirono a passare il vallum e, sorprese le truppe, ne fecero strage uccidendo anche il comandante. A vendicare l’onta fu mandato Ulpio Marcello, che non smentì la sua fama di prode generale e, sconfitti i nemici, li ricacciò oltre la linea di difesa.
Mentre l’imperatore viveva fra le sue meretrici e sempre impegnato nei divertimenti, covava l’ira nei petti dei sudditi. Ciascuno temeva per sé: i senatori, i cavalieri, i ricchi i cui beni facevano gola al principe e ai suoi malvagi ed ingordi favoriti. E tutti quelli che potevano perdere la vita o le sostanze desideravano la fine del tiranno. Questa venne dopo tredici anni di regno e fu dovuta ad una congiura di palazzo. Avvicinandosi la fine dell’anno 192, Commodo aveva annunziato che il primo giorno dell’anno prossimo, in cui solevano celebrarsi le feste di Giano, egli si sarebbe presentato al pubblico vestito da gladiatore e scortato da un drappello armato di gladiatori invece di pretoriani. Marcia, Leto ed Eletto osarono consigliarlo di non voler prostituire la sua dignità mettendo in esecuzione quel proposito e Commodo, adirato, li minacciò. Temendo essi che l’imperatore mantenesse le minacce, stabilirono di sopprimerlo. Nella notte del 31 dicembre diedero al principe delle vivande avvelenate e, poiché il veleno non produsse l’effetto desiderato, lo fecero strozzare dall’atleta Narcisso mentre faceva il bagno.
Così, in età di trentadue anni, detestato da tutti, moriva l’ultimo degli Antonini.
Gli Antonini
Fatto curioso e singolare nella storia degli Imperatori adottivi, è che i loro natali avvennero in sequenza in tre sole città: Roma (Marco Aurelio e Lucio Vero); Italica (Spagna)(Traiano e Adriano) e Lanuvio (Antonino Pio, Commodo)
Si inizia con Nerva che adottò Traiano, Traiano adottò Adriano (che erano parenti, nati ambedue a Italica); Adriano adottò Antonino Pio nato a Lanuvio, che adottò suo nipote Marco Aurelio e Lucio Vero (figlio a sua volta di suo fratello adottivo Elio Cesare, morto precocemente Antonino Pio lo tenne in casa sin da piccolo e fu affidato agli stessi maestri di Marco Aurelio tra i quali Frontone) e l’ultimo degli antonini Commodo figlio naturale di Marco Aurelio e Faustina minore, nato sempre a Lanuvio. In questa dinastia vi fu un grosso intreccio di parentele: Faustina maggiore moglie di Antonino Pio, cognata di Adriano e, figlia del console Marco Annio Vero, nipote di Traiano, parente dell’imperatore Lucio Vero anche lui adottato da Antonino Pio, che affiancò per un periodo Marco Aurelio come co-imperatore unico caso di diarchia nella storia romana. Marco Aurelio inoltre promise in sposa di Lucio la figlia undicenne, Lucilla (Annia Aurelia Galeria Lucilla, sorella di Commodo), nonostante formalmente fosse suo zio. Lucilla divenne imperatrice e diede a Lucio Vero 3 figli. Alla morte di Lucio Vero, vicino ad Aquileia forse per la peste antonina 165-180 (che provoco milioni di morti nell’impero romano), Marco Aurelio sentì molto la perdita del fratello adottivo. Ne portò il corpo a Roma offrendo giochi in sua memoria. Dopo le esequie il senato lo divinizzò dandogli l’appellativo di Divus Verus. Quindi della Dinastia degli Antonini quattro imperatori ebbero forti rapporti con Lanuvio; Antonino Pio e Commodo vi nacquero, Marco Aurelio e Lucio Vero erano i figli di Antonino Pio e vissero nella villa Imperiale di Lanuvio, nella quale furono rinvenuti molti busti degli imperatori e delle imperatrici.
Publio Sulpicio Quirino – Console romano
Publius Sulpicius Quirinius (c.45 a.C. – 21 d.C.) . Nato nel municipio di Lanuvio da famiglia ricca ma senza vantare alcun senatore o magistrato.
Senatore romano e console nel 12 d.C. sotto Ottaviano Augusto, famoso come legato della Siria. Sulpicio Quirino è uno dei personaggi più famosi dell’antica Roma poichè nel 6 a.C., legato di Augusto in Siria, organizzò un censimento della Giudea e questo momento storico è quello dell’inizio dell’era moderna con la nascita di Gesù di Nazareth.
Questo episodio è ricordato nel vangelo secondo Matteo:
“ In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio. Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città. Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta. Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo.”(Matteo 2,13,7)
Sotto Ottaviano Augusto aveva ottenuto il trionfo per aver espugnato le fortezze omonadensi in Cilicia, era poi stato consigliere di Gaio Cesare quando questi governava l’Armenia.
La sua ascesa avviene quando Ottaviano Cesare Augusto per far fronte ai complessi problemi di ordine pubblico, alle continue rivolte ed all’intolleranza delle popolazioni della Palestina verso i romani, cambiò strategia decidendo di riunire le varie città della Giudea, della Samaria e della Idumenea in una unica provincia con capitale Cesarea ed unita alla Siria, che fu affidata come legato a Sulpicio Quirino.
La sua carriera pubblica (conosciuta) inizia nel 15 a.C. quando Augusto lo nomina proconsole della provincia di Creta e Cyrenaica e si può supporre che per avere questa carica, quasi sicuramente aveva avuto queste funzioni ed aveva ricoperto ruoli nella gestione dell’impero romano precedentemente. Diciamo questo perché era impossibile ricoprire la carica di proconsole a meno che non si avesse servito l’impero come pretore, e per avere l’incarico di pretore si doveva aver raggiunto un’età di circa trenta anni e di essere stato tribuno militare, magistrato o questore.
In Cyrenaica, Sulpicio Quirino combattè con successo contro i Garamanti, una tribù del deserto del Sahara libico che abitava al sud di Carene, e per questo fu accolto a Roma come un eroe di guerra. Nel 12 a.C fu nominato console, la carica più importante nell’impero – dopo l’imperatore naturalmente.
Dopo questo successo, Augusto nominò Quirino legato della Galizia e della Pamphylia (Turchia centrale).
Sulpicio Quirino fu un comandante estremamente capace e i suoi successi nel Sahara non furono fortuiti, così divenne un personaggio fidato dell’imperatore Cesare Augusto.
Durante i primi anni della nostra era, Quirino ebbe il ruolo di rettore (guida) di Gaio Cesare, nipote di Augusto e suo successore designato. Il giovane doveva visitare le province orientali ed imparare qualcosa circa il governo. Partì da Roma il 29 gennaio. (fra gli ufficiali che lo scortavano c’erano lo storico Velleius Paterculus, Marcus Lollius e Seianus, il futuro prefetto pretoriano ed avvelenatore di Tiberio).
Quirino fu probabilmente presente quando Caio incontrò Phraataces re dei Parti su un’isola nel Eufrate e fu uno dei consiglieri militari di Caio quando invase l’Armenia. Purtroppo, il giovane venne ferito e morì.
Augusto designò Tiberio come suo successore e quasi immediatamente, Quirino, venne nominato legato della Siria, una delle province più importanti dell’impero, e comandante delle quattro legioni (III Gallica, VI Ferrata, X Fretensis, XII Fulminata).
La popolazione della Giudea, era irrequieta, l’etnarca Erode Archelao, aveva governato in modo pessimo il suo regno e nel 6 a.C., Augusto, lo mandò in esilio in Gallia.
La Giudea diventò così una parte autonoma della provincia romana Siria, regolata da un prefetto. A Sulpicio Quirino fu ordinato di organizzare la riscossione della nuova tassa – fino ad allora era stata pagata in natura – e con il censimento che organizzò, agli abitanti fu richiesto di dichiarare la loro proprietà in soldi.
Nell’anno 14 d.C. l’imperatore Augusto muore e gli successe Tiberio, Sulpicio Quirino è ormai un uomo anziano e molto ricco che ha acquisito molta influenza sui poteri romani. Fu sposato due volte, prima con Appia Claudia e quando era ormai anziano con Aemilia Lepida figlia del triumviro Lepido che era stato Pontefice Massimo di Roma.
Nell’anno 20 d.C. Aemilia Lepida rimase incinta sostenendo che il legittimo padre era Quirino, questi negò ritenendolo impossibile. Questa vicenda ci viene narrata da Tacito negli Annali.
Alla sua morte, nel 21d.C., la dinastia si interruppe non avendo avuto figli, né con Aemilia Lepida, né con Appia Claudia.
L’imperatore Tiberio ne pronunciò la lode funebre, come riporta Tacito:
“48. In quel torno di tempo, chiese al senato che, per la morte di Sulpicio Quirinio, fossero celebrati funerali di stato. Quirinio non ebbe nulla a che fare con l’antica famiglia patrizia dei Sulpicii, perché era nato nel municipio di Lanuvio; ma la sua efficienza militare e lo scrupoloso esercizio delle sue funzioni gli erano valsi il consolato sotto il divo Augusto e poi le insegne trionfali, dopo l’espugnazione delle fortezze degli Omonadesi in Cilicia; quindi, assegnato come consigliere a Gaio Cesare nel governo dell’Armenia, aveva reso omaggio anche a Tiberio, al tempo del suo ritiro a Rodi. Questo allora Tiberio rammentò in senato, con parole di lode per le cortesie ricevute e con espressioni di rimprovero per Marco Lollio, al quale imputava di aver suscitato la discordia e l’avversione di Gaio Cesare nei suoi confronti. Ma il ricordo di Quirinio era tutt’altro che gradito agli altri per l’azione intentata, come già ricordato, contro Lepida e per la sua vecchiaia sordida e prepotente.”
Lucio Elio Stilone Preconino – Scrittore e filologo romano
Elio Stilone Preconino nacque a Lanuvio (Lanuvium) verso il 150 a.C., fu il maestro e il fondatore della filologia a Roma, e sicuramente veniva come scuola di pensiero dalla stoico-pergamena e dall’alessandrina.
Fu maestro di Terenzio Varrone (116-27 a.C.); con rigore critico si valse dei metodi greci per indagare notizie, caratteri stilistici, documenti letterali e pre-letterali e l’autenticità di opere di poeti antichi.
Commentò Le leggi delle XII Tavole e il Carme Saliare e trattò il problema critico del teatro di Plauto.
Fu grande amico di Q. Cecilio Metello Numidico, tanto che quando questi fu esiliato a Rodi nel 100 a.C., egli lo seguì: “……a Roma la cultura retorica e letteraria aveva ormai fatto passi da gigante. A cavallo fra il I° e il II° secolo a.C., grandeggia la figura del maestro di Varrone Reatino, L. Elio Stilone Preconiano di Lanuvio, il quale, essendo di parte aristocratica, nel 100 a.C. volle addirittura accompagnare in esilio a Rodi Q. Metello Numidico, colui che Mario aveva soppiantato nel comando della guerra Giugurtina…..” (Paratore: Storia della letteratura Latina)
Scrisse un Commentarium de proloquiis, partecipò alla disputa tra analogisti e anomalisti schierandosi dalla parte dei primi, che proclamavano l’affinità e la sistematicità dei fenomeni grammaticali ripudiando il concetto di eccezione.
Fu amico dei più illustri personaggi dell’epoca e conservò ottimi rapporti con il Circolo di Lutario-Catullo.
Nel 90 a.C. fu maestro di Cicerone.
Una curiosità, soprattutto considerando la concezione del potere in quella epoca, fu il fatto che Stilone al termine “maestro” diete una concezione del tutto personale (moderna diremmo) : “….. un insegnamento formale, tanto nella letteratura quanto nell’arte oratoria latina, fu dato dapprima verso l’anno 104 a.C. da Lucio Elio Preconiano da Lanuvio detto Stilone – l’uomo dallo stilo -, distinto cavaliere romano e di principi conservatori, che in mezzo a uno scelto gruppo di giovani, tra i quali Varrone e Cicerone, leggeva le opere di Plauto e di altri simili, e si prestava con questi lavori ad aiutare i suoi amici. Stilone insegnava letteratura e retorica come fa un vecchio amico dei giovani e non come un uomo prezzolato, a disposizione soltanto di chi lo paga.” (Momensen. Storia dell’Arte)
Lucio Torio Balbo – Console e magistrato romano
Lucius Thorius Balbus, tribuno del popolo nel 111 a.C. di origine plebea apparteneva alla gens lanuvina (di Lanuvium, l’odierna Lanuvio) dei Thorii.
Magistrato monetario e console, passato alla storia per una legge agraria che prende il suo nome; è famoso il conio di una moneta di Nicomedia (capitale del regno di Bitinia) con il suo nome che è conservata nel Museo Nazionale di Napoli.
Partecipò alla guerra Sertoriana (77-72 a.C.) in Spagna contro Quinto Sertorio, come ufficiale di Quinto Cecilio Metello, dove morì in combattimento in una imboscata.
Lucio Torio Balbo era ateo (si racconta che si burlava dei riti religiosi) e seguace di Epicuro. Fu un grande amante dei piaceri.
Cicerone parla di lui nella sua opera “De Finibus honorum et malorum”, descrivendolo pieno di vita e lo descrive in questo modo:
“Ha vissuto in modo di non privarsi di alcun piacere e di nessun tipo di squisitezza. Non solo la sua bramosia del piacere era nota ma anche la sua gran conoscenza della stessa. Era così poco superstizioso che disdegnava sacrifici e il santuario del suo paese. Temeva così poco la paura della morte che morì in difesa di Roma.
Ricercava i piaceri non nei termini della dottrina di Epicuro ma nella misura delle sue voglie. Tuttavia teneva molto alla salute: praticava esercizi fisici per stimolare la sete e l’appetito, si nutriva con raffinate portate facilmente digeribili. Beveva con piacere eccellente vino ma non al punto da nuocere alla sua salute…”
Cicerone utilizzava la figura Torio Balbo per attaccare l’epicurismo ed indicare con la figura di Marco Regolo i veri valori romani, mentre Michel de Montaigne, insigne pensatore e scrittore francese del Rinascimento, rivalutava la figura in senso eroico affermando che “…la sua condotta di vita aveva preparato la sua anima ad affrontare il dolore e la morte, come zavorra della vita umana, e quindi ad immolarsi nel campo di battaglia, con le armi in mano, in difesa della patria….”
Tito Annio Milone – Dittatore romano
Tito Annio Milone (Dittatore di Lanuvio nel 52 a.C). Fu tribuno nel 57 a.C.
La figura di Milone, insieme a quella di Publio Clodio suo acerrimo nemico, irrompe nel contesto storico di una Roma repubblicana dove il Senato non controlla quasi niente, dove non mancano trame, uccisioni, tradimenti e per ultimo la Guerra Civile.
Nel 60 a.C., il primo Triumvirato permise ai tre uomini più potenti di Roma (Giulio Cesare, Marco Licinio Crasso e Gneo Pompeo Magno) di porsi al di sopra delle istituzioni repubblicane e di prendere importanti decisioni che gli ottimati non ebbero più la forza di contrastare.
Il denaro di Crasso e Pompeo, unito all’abilità politica di Cesare e al suo carisma nei confronti delle masse popolari, rappresentavano una miscela potente in grado di far saltare ogni barriera. L’accordo venne rinforzato 4 anni più tardi (56 a.C.), con un incontro nella città di Lucca, dove venne decisa un’ulteriore spartizione di incarichi e di poteri.
L’alleanza tra Cesare e Pompeo era stata poi cementata da un legame di carattere familiare: Giulia la figlia di Giulio Cesare era andata infatti in sposa a Pompeo Magno.
La situazione sembrava quindi stabile, ma molte nuvole si andavano addensando all’orizzonte, anche perché la città non stava a guardare e molti tentavano di allentare questa relazione che metteva fine a tutti gli spazi di libertà, ma soprattutto di potere. Del resto la lontananza di Giulio Cesare, impegnato in Gallia, rendeva più facile l’azione di chi mirava a logorare l’alleanza.
Nel giro di due anni accaddero due eventi che allentarono il rapporto esistente tra Cesare e Pompeo.
Nel 54 a.C., la prematura fine di Giulia, morta di parto, aveva interrotto il forte legame familiare esistente tra i due uomini, mentre nel 53 a.C., la fine di Crasso in quel di Carre, aveva decretato la fine “naturale” degli accordi triumvirati.
E così gli ottimati cominciarono un corteggiamento asfissiante nei confronti di Pompeo, tentando di riportarlo nel loro schieramento dopo che lo stesso se ne era allontanato con la sua politica anti-sillana messa in atto durante il suo consolato del 70 a.C..
Publio Clodio e Milone
Milone parteggiava per Pompeo, e si batté strenuamente per il ritorno in patria di Cicerone che era stato mandato in esilio da Cesare.
A favorire lo spostamento di Pompeo c’era anche l’atteggiamento di Publio Clodio, le cui bande imperversano sulla città, condizionando la politica Romana e gettando discredito sul partito popolare.
Publio Clodio era ormai sfuggito anche al controllo dello stesso Cesare, ma tra gli ottimati permaneva il sospetto che le sue azioni fossero ancora ispirate dal proconsole di Gallia.
Il sospetto ce lo aveva anche Pompeo che ultimamente era diventato l’oggetto delle attenzioni malsane del capobanda popolare, anche a causa del contrasto che i due avevano avuto sull’episodio dell’esilio di Cicerone.
A Clodio, Pompeo contrappose Tito Annio Milone, scatenando una guerra di bande (che durò cinque anni) che rese particolarmente violento il clima cittadino, portando la politica ad una situazione di stallo tale per cui si arrivò anche a rinviare le elezioni dove lo stesso Milone era candidato.
L’anno 52 a.C. iniziò senza magistrati in carica, in un vuoto di potere assoluto, visto che Pompeo aveva impedito anche che si nominasse un interrè in loro vece.
Il 1° gennaio avvenne l’episodio che sconvolse la situazione politica romana dando a Pompeo il pretesto per assumere il controllo assoluto del potere.
Le due bande, quella di Clodio e quella di Milone, si incontrarono casualmente presso Boville e si scontrarono duramente. Publio Clodio rimase ferito e venne trasportato in una locanda, dove le bande di Milone lo raggiunsero e lo uccisero.
La sera stessa, sua moglie espose il suo cadavere provocando la reazione dei suoi seguaci e comunque l’ira del popolo romano.
La mattina dopo la città si ritrovò nel caos più completo, il corpo di Clodio venne portato in Senato e lì venne cremato, con la Curia trasformata in una grande pira.
I senatori riunitisi in una sede straordinaria attribuirono la carica di interré a Marco Emilio Lepido che avrebbe esercitato poteri speciali insieme ai tribuni e al proconsole Pompeo.
In questo frangente Pompeo si mantenne in contatto con Giulio Cesare il quale gli concesse la possibilità di arruolare truppe nella Gallia Cisalpina, in cambio dell’impegno di Pompeo a combattere Milone e le sue bande.
Appena la situazione in città si calmò, gli ottimati fecero la mossa politica con la quale associarono definitivamente Pompeo alla loro causa: convocarono i comizi e lo fecero eleggere come console unico.
Era il 26 febbraio del 52 a.C., quando Pompeo ottenne la carica che lo consacrava come autentico dittatore, pur mantenendo nominalmente una parvenza di legalità repubblicana.
Inizialmente Pompeo mantenne fede all’accordo con Cesare e riuscì a far condannare a morte Milone, in un processo in cui fu difeso da Cicerone con la sua famosa e celebrata orazione “Pro Milone”. La sentenza non venne eseguita poiché Milone era già fuggito a Marsiglia.
Nel 48 a.C., Milone, aderì di nuovo all’invito di creare disordini allo Stato, venne ucciso colpito da un sasso mentre assediava il forte di Conza (Carimassus oggi Cairano) in Lucania nel 51 a.C come testimoniano Plinio Velleio Patercolo e Plutarco.
Un fatto curioso accadde l’anno precedente:
“Sotto il consolato di Lucio Paolo e Gaio Marcello (50 a.C.), piovve lana nella zona del forte di Conza, vicino al quale Tito Annio Milone fu ucciso un anno dopo. Mentre costui veniva processato, ci fu una pioggia di mattoni cotti, registrata negli atti ufficiali di quell’anno”. (Plinio il Vecchio, Naturalis historia 2. 57.)
Lucio Licinio Murena – Console romano
Lucio Licinio Murena, nato a Lanuvium nel 105 a.C., fu il primo console lanuvino a Roma.
La sua famiglia, di antichissima origine, vantava tra i propri membri alti magistrati e grandi condottieri: il bisnonno e il nonno erano stati pretori, il padre era stato legato di Silla in Grecia e governatore d’Asia; in questa veste provocò di sua iniziativa la seconda guerra mitridatica e Silla gli concesse l’onore del trionfo.
Nella primavera dell’83, Licinio Murena venne incaricato come propretore del governo d’Asia. Siccome Mitridate si rifiutava di evacuare la Cappadocia, Murena riprese la guerra nell’83, senza l’autorizzazione del senato. Per ordine di Silla, egli dovette porre termine nell’81 a questa seconda guerra mitridatica: Mitridate accettò infine di restituire la Cappadocia al suo re.
Licinio Murena militò in Asia prima agli ordini del padre, fu poi legato di Lucullo nella terza guerra mitridatica e si segnalò nella campagna d’Armenia.
Nel 63 a.C. venne eletto al consolato per l’anno 62 a.C. grazie all’amico Cicerone che, con un arbitrario differimento delle operazioni elettorali, ottenne che la gran folla dei nullatenenti, accorsa a Roma per sostenere Catilina, si diradasse e riuscì a far eleggere L. Licinio Murena. Dallo stesso Cicerone fu difeso al processo in cui venne accusato di broglio elettorale. La motivazione che indusse il grande oratore a perorare la causa di Murena fu anche quella di voler evitare che al posto di Murena subentrasse proprio Catilina. Cicerone addusse come fondamentale il motivo politico che sconsigliava la condanna di Murena, segno della decrepitezza del regime oligarchico che difendeva la legalità con mezzi illegali.
SCHEDA DEL RITRATTO MARMOREO DI LICINIO MURENA
Marmo Pentelico
Altezza Mento capelli 0,27
Mancante del naso e della nuca (lavorata separatamente)
Abrasioni nella capigliatura
Conservata fino al 1914 presso il Museo Civico Lanuvino, poi dispersa in seguito alla distruzione del Museo causata dai bombardamenti anglo-americani del 1944. Nel 1998 una porzione della testa (fig. 3-6) è stata rinvenuta all’interno di una tamponatura di un arco ottocentesco utilizzata, insieme ad altri oggetti scultorei, come materiale di riempimento.
Museo Civico Lanuvino
OSSERVAZIONI
Nonostante la perdita del naso, dalla foto si ravvisa un modellato piuttosto fine della testa, leggermente inclinata a sinistra.
Il pezzo, prodotto nel decennio tra il 70 e il 60 a.C., ripropone in maniera schiacciante modelli di IV sec. a.C. attribuibili alla cerchia di Lisippo.
Il volto presentava una fronte non molto ampia, le arcate sopracciliari ricadono piuttosto pesantemente sulle arcate orbitali. La bocca era piccola e carnosa, le labbra non mostravano ondulazione. Il mento piccolo e sporgente rendeva il volto di forma ovale. Le orecchie erano piccole e attaccate alla testa con un lobo ristretto.
La capigliatura a corti ricci è stata lavorata con una tecnica di rapido effetto, le ciocche più avanzate presentano una cura maggiore. Dalla zona posteriore delle orecchie partono due canali, del diametro di 5 mm., eseguiti col trapano, che andavano verso il centro della testa dove vi è uno scasso quadrangolare per l’inserimento della grappa in metallo della nuca (o di un elmo), lavorata con un altro blocco di marmo pentelico.
L’inclinazione a sinistra della testa fa presumere che la scultura fosse meglio osservata attraverso una visione di tre quarti alla destra del visitatore. Il pezzo mostra i confronti più stringenti nella fisionomia di insieme con la testa della copia in marmo pario dell’Agia di Lisippo, conservata a Delfi, datata tra il 337 e il 336 a.C. e con una testa di atleta tipo Agia in marmo pentelico conservata al Museo di Cirene e datata alla fine del IV sec. a.C.
La lavorazione in più parti della testa, tecnica tipica della fase artistica tardo-ellenistica, trova riscontro nella statua in marmo pentelico nota come “il generale di Tivoli”, rinvenuta tra le rovine delle sostruzioni del Tempio d’Ercole a Tivoli.
Roscio Comedo – artista attore romano
Roscio Comedo (Roscius, Gallus Quintus), celebre attore romano del I° secolo a.C., nato a Solonium (Solonio) località di Lanuvio nel 126 a. C. circa, e morto il 62 a.C.
Della vita di Roscio Comedo ci sono giunte poche notizie ma la sua vita artista è ben conosciuta ed il suo modo d’interpretazione è ancor oggi ammirato ed imitato.
Si pensava che la sua origine fosse servile ma sembra essere smentita dal legame di parentela contratto con l’aristocratico P. Quinesio (Plinio NH VII 128).
Dotato di una bella faccia ed una figura virile, studiò il comportamento e le gestualità degli attori più distinti, specialmente Q. Hortensius; fu premiato con un encomio universale per la sua grazia ed eleganza sul palcoscenico.
Portato dal suo temperamento ai ruoli comici, eccelse specialmente nella commedia, anche se non trascurò quelli tragici; Cicerone nel “Pro Roscio” ricorda che egli sosteneva nello Pseudolus di Plauto la parte di Ballione.
Grande amico di Cicerone, il quale prese lezioni recitative da lui. I due si divertivano a recitare le parti di rivalità per verificare se l’oratore o l’attore potessero esprimere un pensiero o l’emozione con il migliore effetto scenico.
Affetto da strabismo avrebbe introdotto l’uso della maschera (Suet. De poet. II; Cic. De cret. III, 221).
Istituì una scuola d’arte drammatica, lasciando anche un manuale di recitazione nel quale comparò recitazione ed oratoria Roscius.
Nel 76 a.C. fu chiamato in giudizio per il possesso contrastato di un fondo terriero da C. Fanno Cherea (Fannius Chaerea) per 50.000 sesterzi, e fu difeso da Cicerone in un discorso famoso che ci è giunto a noi come il “Pro Roscio”.
La sua cultura e signorilità gli valsero gli omaggi poetici di Catullo (Quintus Lutatius Catulus) che compose una quartina in suo onore e del poeta epico Archia; anche Orazio (Ep. II, 1, 82) lo ricorda come “doctus Roscius” insieme al celebre contemporaneo collega Esopo (Clodius Aesopus, da non confondere con il più celebre favolista greco) che, si racconta, insieme erano soliti ascoltare le orazioni di Ortensio per riprodurne sulla scena l’efficacissimo gestire (Val. Max. VIII, X, 2) (Ch. Encl. Spettacolo vol. VIII col. 1209).
Venne insignito da Silla dell’anello d’oro dell’ordine equestre, una distinzione straordinaria per un attore a Roma, dove questa professione era vista in modo magnanimo.
Come il suo collega Aesopus, Roscius ammassò una grande fortuna, e poco tempo dopo che abbandonò il palcoscenico giunse la morte nel 62 a.C..
Ancor oggi si ricorda, almeno in Inghilterra dove la tradizione teatrale è ancora solida, con l’appellativo “il giovane Roscius” o “il Roscius” i promettenti e validi giovani attori come un marchio di distinzione suprema.
Luscio Lanuvino – commediografo latino
Luscio Lanuvino (Luscius Lanuvinus), commediografo latino (II° secolo a.C.) scrisse numerose commedie palliate (da “pallium”, l’abito di scena indossato dagli attori) che sono state tutte perdute, e che gli procurarono notevole fama tra i suoi contemporanei.
Purtroppo le notizie biografiche riguardanti Luscio, soprannominato “Lanuvino”, sono molto scarse. Non ne conosciamo nemmeno il nome, perché “Luscio” è il cognome gentilizio.
Così non sappiamo l’anno di nascita, ma il fatto che seguì l’indirizzo e lo stile letterario di Cecilio Stazio, vissuto tra il 220 e il 167 a.C. e la sua polemica con il commediografo Terenzio Afro, vissuto tra il 185 e il 159, ci fanno ritenere con sicurezza che visse nel II sec. a.c.
Anche il soprannome “Lanuvinus” ci dice, senza ombra di dubbio, che nacque a Lanuvio, da famiglia molto probabilmente lanuvina, perché abbiamo notizie di altri “Lusci” legati a Lanuvio da stretti rapporti, come Caius Luscius Ocra, personaggio facoltoso e stimato che ottenne la dignità di senatore e nel 76 a.C. fu chiamato a testimoniare nel processo in cui era imputato il famoso attore lanuvino Quinto Roscio Comedo.
Un altro Lusciùs Ocra rivestì una carica autorevole nel Municipio di Lanuvio, come ci ricorda una iscrizione lanuvina.
Di Luscio Lanuvino sappiamo che svolse la professione di commediografo. Non sappiamo quante commedie compose, tutte perdute; ci restano solo due titoli, il Phasma (il fantasma) e il Thesaurus, che furono realmente rappresentate.
La sua polemica con Terenzio trae origine dal fatto che Luscio fu un fedele seguace di Menandro, commediografo greco, di cui tradusse le commedie in Latino, attenendosi scrupolosamente ad una stretta fedeltà, senza apportare mutamenti o adattamenti, neppure per renderle più comprensibili agli spettatori romani.
Da qui nacque l’avversità di Terenzio, che lo tacciò di pedanteria, il che provocò la ritorsione di Luscio, che accusò Terenzio di aver preso elementi dai suoi predecessori, Nevio e Plauto, metodo chiamato “contaminatio “, largamente usato allora dai commediografi, tanto che, durante la rappresentazione di una commedia di Terenzio, Luscio si alzò gridando: “Tu non sei un poeta, ma un ladro!”. Era un’accusa molto grave, perché nel teatro romano potevano essere ammesse soltanto opere nuove, senza implicanze con il passato.
Al di là della polemica con Terenzio, tutti hanno sempre riconosciuto, al nostro concittadino, un posto di prestigio tra i commediografi latini.
Marcantonio Colonna
Marcantonio Colonna nacque il 26 febbraio del 1535 a Civita Lavinia (l’odierna Lanuvio) da Ascanio Colonna, secondo duca di Paliano e conte di Tagliacozzo (fratello della poetessa Vittoria Colonna) e da Giovanna d’Aragona, nipote del re Ferdinando I di Napoli; venne insignito del cavalierato dell’Ordine del Toson d’Oro.
Diseredato dal padre per ribellione, nonostante fosse l’unico erede maschio vivente, riuscì a tornare in possesso dei domini colonnesi solo dopo circa un decennio nel 1562, anche grazie all’appoggio di papa Pio IV, dovendo però vendere alcuni feudi tra cui Nemi, Ardea e Civita Lavinia per risanare il dissesto finanziario lasciato da Ascanio.
In occasione della guerra di Siena (1553-1554) venne nominato comandante della cavalleria spagnola e capitano generale dell’esercito.
Per togliergli il Ducato di Paliano papa Paolo IV scatena una guerra al re di Spagna, re anche di Napoli, che si conclude con il trattato di Cave. Alla morte di Paolo IV Marcantonio Colonna rientra in possesso dei suoi feudi, tranne Paliano, che recupererà solo sotto Pio V che nel 1569 lo eleva a principato.
Nel 1570 venne nominato capitano generale della flotta pontificia da papa Pio V, mentre l’anno successivo Don Juan d’Austria lo nominò Capitano generale della flotta alleata nella guerra contro i musulmani.
Il Colonna fu uno dei principali protagonisti della battaglia di Lepanto (1571). L’anno precedente lo scontro svolse un ruolo diplomatico determinante: predispose i preparativi ed appianò le reciproche diffidenze tra Spagnoli e Veneziani. Nella battaglia (7 ottobre 1571), la nave ammiraglia di Colonna e la reale di Giovanni d’Austria catturarono l’ammiraglia della flotta turca. Al suo ritorno a Roma, papa Gregorio XIII lo riconfermò capitano generale della flotta pontificia e cercò di proseguire la guerra in Terra Santa sull’onda della vittoria di Lepanto. Questa intenzione fallì dopo la firma della pace tra Venezia e i Turchi (1573), quando la Lega cristiana si sciolse. Le gesta eroiche di Marcantonio a Lepanto furono il principale motivo ispiratore degli apparati pittorici della Galleria Colonna realizzata circa un secolo dopo nel palazzo di famiglia a Roma.
Soggiornò a lungo ad Avezzano dove aveva fatto costruire un fontanile ancora oggi esistente. In città era molto amato. Qui nel 1575 innalzò di un piano il castello precedentemente edificato dagli Orsini, fece realizzare una loggia che si affacciava sul lago Fucino, trasformò il parco retrostante in giardino all’italiana e fece realizzare un nuovo portale accanto a quello ogivale degli Orsini con iscrizione sovrastante a ricordo della vittoria a Lepanto.
Marcantonio Colonna fu anche signore di Marino. La battaglia di Lepanto fu di enorme importanza per la popolazione marinese, tanto che a Marino viene ancora ricordata all’interno della locale Sagra dell’Uva, la festa profana che nell’ultimo secolo si è andata a sovrapporre alla festa religiosa, istituita da papa Pio V a seguito della vittoria riportata contro i Turchi, in onore della Madonna del Rosario, sotto la cui protezione era stata posta la spedizione navale. La Sagra dell’Uva, non a caso, si tiene ogni anno a Marino proprio la prima domenica di ottobre.
Il 4 gennaio 1577 Filippo II di Spagna lo nominò Viceré di Sicilia. Istituì una nuova suddivisione amministrativa del territorio del Regno di Sicilia: con la prammatica del 13 aprile 1583, infatti decretò l’istituzione delle Comarche, al cui centro vi erano le 42 città demaniali. Le funzioni principali erano amministrative, di riscossione dei tributi e censimento della popolazione.
Nel 1584 fu richiamato in Spagna, dove morì lo stesso anno all’età di quarantanove anni. Riportato successivamente in Italia venne sepolto nella collegiata di S. Andrea a Paliano.
Silvio Stampiglia
Silvio Stampiglia – Civita Lavinia (l’odierna Lanuvio), 14 marzo 1664 – Napoli, 27 gennaio 1725) è stato un librettista italiano, membro fondatore dell’Accademia dell’Arcadia sotto il nome di Palemone Licurio, fu poeta cesareo alla corte di Vienna. Fornì una cinquantina di libretti per opere, serenate, oratori, etc., a parecchi compositori, tra i quali Bononcini e Porpora.
Dopo gli studi iniziali di diritto e matematica a Roma, si indirizzò verso la carriera di poeta e librettista. I suoi primi libretti furono serenate, destinate a rappresentazioni presso le case delle famiglie romane più in vista, e oratori, che vennero allestiti in varie chiese della città: tra questi si ricordano in particolare San Stefano, primo re dell’Ungheria e La gioia nel seno d’Abramo, pubblicati rispettivamente nel 1687 e 1690.
Dal 1696 al 1704 fu a Napoli al servizio della corte del viceré e contemporaneamente scrisse i suoi primi drammi[1] per il Teatro San Bartolomeo, il teatro principale della città partenopea, tra i quali si ricordano Il trionfo di Camilla e La Partenope. Nel 1704 fu attivo presso la corte del granduca Ferdinando de’ Medici a Firenze, dove produsse vari lavori che furono rappresentati al Pratolino. Nel 1705 il cardinale Pietro Ottobonigli affidò la stesura di un Componimento Poetico da cantarsi in Palazzo Apostolico la Notte del SS. Natale MDCCV[2], la cantata Cinque Profeti. Dal 1706 al 1718 fu poeta cesareo e storiografo alla corte imperiale di Vienna e dal 1718 nuovamente a Roma. Nel 1722 lasciò la città eterna per recarsi a Napoli, dove rimarrà per il resto della sua vita. Si sposò con Brigida Pianavia Vivaldi o Vivalda, di famiglia originaria da Taggia, dove si era trasferito un ramo dell’illustre famiglia genovese dei Vivaldi.
Anche suo figlio Luigi Maria seguì le orme del padre, intraprendendo quindi la carriera librettistica ma sembra che fosse attivo principalmente come adattatore e traduttore.
Marianna Dionigi Candidi – paesaggista e viaggiatrice
Marianna Candidi nacque a Roma il 3 febbraio 1756 da Giuseppe, medico dotato di notevole cultura umanistica, e da Maddalena Scilla.
Fin da giovanissima, la C. coltivò vari interessi: studiò musica (abile nel contrappunto, suonava arpa e clavicembalo; godeva dell’ammirazione e delle frequenti visite di Anfossi, Paisiello, Cimarosa); si dedicò allo studio delle lingue latira e greca e alla lettura dei classici; intraprese ricerche archeologiche (suo istruttore in greco e latino fu Cunich); soprattutto, si avviò alla pittura di paesaggio, sotto la guida di Carlo Labruzzi. Imparò anche ottimamente le lingue inglese e francese. Prima dello scoppio rivoluzionario fu invitata alla corte francese per svolgervi attività di istitutrice di una delle principesse reali, ma non accettò per non lasciare la famiglia. A soli quindici anni aveva infatti sposato Domenico Dionigi, originario di una famiglia nobile di Ferrara da più generazioni trapiantata a Roma, il quale si occupava di diritto e di lettere; ne rimase vedova nel 1801.
Soprattutto dal periodo rivoluzionario in poi, il salotto della C., al n. 310 di via del Corso in Roma, divenne uno dei punti d’incontro tra la cultura “romana” e gli intellettuali italiani e stranieri: tra gli altri lo frequentarono V. Monti, Erskine, J.-B. Seroux d’Agincourt, Cunich, Fea, Poniatowsky, Valadier, Tambroni, Cancellieri, Milizia, Canova, G. Capogrossi Guarna, G. G. de Rossi, Leopardi.
Dato l’interesse della C. per l’archeologia, fra gli ospiti più assidui era E. Q. Visconti, che la volle presente all’apertura del sepolcro degli Scipioni (1780). In questa occasione la C. manifestò la propria disapprovazione per la dispersione del materiale, cercando di impedire il trasferimento al Museo Pio Clementino del sarcofago di Scipione Barbato, e ottenendo almeno che al suo posto fosse conservata una riproduzione. Altri ospiti illustri del salotto furono P.-L. Courier, ufficiale del genio dell’esercito francese durante la prima occupazione di Roma del 1798 (con questo ufficiale amante più degli studi e dell’arte che della carriera militare vi fu uno scambio di lettere abbastanza nutrito: ne restano alcune scritte dal Courier stesso dal 1806 al 1809) e il giovane P. B. Shelley (1819).
La C. coltivò rapporti con gli studiosi del suo tempo anche come membro di numerose accademie: anzitutto di quella romana di S. Luca (fu nominata “accademica di merito” come “egregia pittrice paesista a tempera” nella seduta del 19 apr. 1808); inoltre della Filarmonica, della Tiberina, dell’Arcadia e, fuori Roma, delle Accademie di Bologna, Perugia (di questa era direttore il suo maestro Labruzzi), Pisa, Pistoia, Livorno, Charlestown (South Carolina). L’ammissione all’Accademia di S. Luca era piuttosto rara per i pittori di paesaggio (definita “arte secondaria” nell’art. 2 dello statuto sociale). La C. e prima di lei (1796) il Labruzzi vi furono accolti perché apparivano fedeli ai canoni accademici della figura, dell’architettura, della prospettiva.
Dell’attività di pittrice svolta dalla C. (su tale attività peraltro non mancarono dicerie e pettegolezzi, volte a metterne in dubbio la paternità) sono testimonianza da un lato varie sue opere conservate presso gli eredi o presso collezioni pubbliche e private, dall’altro il suo libro teorico Precetti elementari sulla pittura de’ paesi, terminato, presentato all’Accademia di S. Luca e da essa approvato nel 1808, ma stampato a Roma solo nel 1816. Testimonianza sia dell’attività artistica sia dell’interesse per l’archeologia è la raccolta di incisioni che, con un testo impostato sotto forma di lettere ad un amico, fu pubblicata a Roma nell’anno 1809 e nuovamente riedita, nel 1812, Sotto il titolo di Viaggio compiutoin alcune città del Lazio che diconsi fondate dal re Saturno.
I quadri della C. sono eseguiti quasi tutti a tempera, con una particolare tecnica che ricorda l’aspetto dell’eneausto nella pittura antica, in accordo con il gusto archeologico proprio dell’epoca. Oltre ad alcune copie da P. Hackert, da Salvator Rosa, dal Poussin, dal Lorenese, è da ricordare dapprima una serie di opere di dimensioni più ridotte: Paesaggio con due tronchi d’albero e due cacciatori (1790, proprietà Frediani-Dionigi); Veduta campestre (1794, caffè Greco a Roma); L’artista che disegna in campagna un antico portale (proprietà Frediani-Dionigi); Autoritratto a pastello (proprietà Dionigi-Lazzarini); e soprattutto una veduta della Campagna romana (Galleria nazionale d’arte moderna a Roma), in cui alberi e cespugli in primo piano fanno da quinta allo sfondo che si allontana per successive gradazioni atmosferiche, secondo lo schema preferito dal maestro secentesco Claudio Lorenese. Meritano anche citazione due tempere su tela conservate pure nella Galleria nazionale d’arte moderna (Paesaggio raffigurante l’Aniene nel pressi di Tivoli, 1798; e altro Paesaggio) e tre altre grandi tele della collezione romana Dionigi-Lazzarini (Mulino di Claudio; un’altra copia eseguita per l’Accademia di S. Luca è andata perduta; Riposo nella fuga in Egitto, 1815; Mosè salvato dalle acque). Anche questi ultimi tre sono dei veri e propri paesaggi (nei soggetti biblici le figure, peraltro molto piccole e sommariamente rese, della storia sacra sono inserite semplicemente per “nobilitare” il genere): nitidezza del dettaglio, diffusa luminosità, “lucidezza delle arie”, “trasparenza delle acque” (secondo le espressioni della stessa C. nei Precetti) caratterizzano queste opere, che però manifestano soprattutto un interesse squisitamente “neoclassico” per l’armonia della composizione, in una visione paesistica garbata e diligente.
Il gusto, appunto, neoclassico per l’estetica normativa si esprime nei Precetti: una delle pochissime trattazioni dedicate all’arte del paesaggio, una esplicita valorizzazione del “genere di pittura a paesi”, in un’epoca in cui il maggior interesse (anche negli scritti teorici) era senz’altro riservato alla pittura di figura. Come fondamento dell’opera paesistica, la C. indica il disegno (in questo vi è l’adeguamento ad un noto principio accademico, e l’influsso dell’opera di P. Hackert), con i relativi studi di prospettiva, orizzonte, punto di vista, ecc. Semplicità, buona distribuzione di chiaro-scuro, tinte fuse e armonizzate devono essere le caratteristiche principali dell’opera; sono citati ad esempio Poussin, Salvator Rosa, Tiziano, il Domenichino; viene indicato come modello per la gioventù il Lorenese. L’armonia della composizione va ricercata mediante la coerenza locale-soggetto, stagione-soggetto, la “distribuzione del lume”, la fusione della composizione “di prima intenzione” e di quella “ragionata”; la tendenza al sublime perfezionato dall'”assiduo studio del vero”, la ricerca del “bello per mezzo del paragone”. Alla fine dell’opera, la C. tiene a definirsi una “dilettante”, dedita prevalentemente alla casa e alla famiglia.
Il Viaggio riguarda le città di Ferentino, Anagni, Alatri, Atina, Arpino. In questo itinerario la C. affrontò fatiche notevoli malgrado la sua età già abbastanza avanzata, e, nell’intento di giungere ad una maggiore precisione nelle rilevazioni, si fece seguire da un architetto. Nelle “lettere” che accompagnano le incisioni, vi sono alcuni spunti interessanti: ad esempio quelli sulle tombe dell’Appia, sul luogo dove Coriolano incontrò la madre, sulle mura di Ferentino (confronto con quelle di Volterra; porta Sanguinaria), su Alatri (Erskine ne aveva raccomandato la visita alla C., che ne fece una minuta descrizione), sulla “villa di Cicerone” ad Arpino (la C. esita ad opporsi alla tradizione, sebbene non veda nulla di antico), su tombe e iscrizioni sfuggite ad altri archeologi e viaggiatori. Le incisioni rivelano da un lato minuziosa attenzione nella riproduzione di abitati, mura, porte (riproduzione che talvolta risponde al vero in maniera esatta, talvolta meno; quello che quasi sempre è alterato è il rapporto fra monumento e figura umana, la quale ultima è impicciolita: cosa del resto comune in diversi vedutisti e paesisti, non ultimo proprio il Labruzzi), in accordo con gli interessi e la preparazione di archeologa della C. (mura poligonali di Ferentino, porta Sanguinaria, lapide di Aulo Quintilio, mura e porte di Alatri, porta ad arco acuminato di Civita Vecchia di Arpino, ecc.), d’altro lato gusto per gli elementi naturalistici, boschi, alberi, che rivela la sua dipendenza dalla scuola di disegno dello Hackert e del Labruzzi (campagna intorno a Ferentino; veduta di Alatri fra monte, fiumi e alberi; vedute, sempre inserite in ampi panorami, di Arpino e di Atina). Caratteristica comune di tutte queste incisioni è la grande finezza di segno e di rapporti chiaroscurali.
La C. scrisse inoltre una storia dei suoi tempi, di cui però è andato perduto anche il manoscritto (cfr. Marcone). Trascorse i suoi ultimi anni in una villa di Civita Lavinia (oggi Lanuvio) già di proprietà della cognata Teresa Frediani. In questa villa (che esiste ancora e contiene la ricca collezione archeologica della C., mentre i disegni e quadri sono andati distrutti nell’ultima guerra) la C. aveva già soggiornato altre volte: in una di queste occasioni, nel 1798, era riuscita ad evitare che il comandante francese Baranger, in un’azione di rappresaglia, radesse al suolo la cittadina. A Civita Lavinia la C. morì il 10 giugno 1826.
La scomparsa della C. non passò sotto silenzio negli ambienti intellettuali; sue biografie di tanto in tanto comparvero fino alla fine del secolo scorso (di notevoli proporzioni quella del Marcone del 1896); mentre nel nostro secolo ella è stata qualche volta ricordata anche dalla stampa di informazione, magari come “prima fautrice delle moderne conquiste della donna” per la sua notevole attività culturale ed artistica, ai suoi tempi piuttosto inconsueta per il suo sesso. Una valutazione critica della sua opera di pittrice è stata avviata solo recentemente dal Martinelli, nel quadro delle sue ricerche sulla pittura di paesaggio a Roma nell’Ottocento: egli giudica la C. una delle più dotate rappresentanti del paesaggio storico-archeologico nel quadro del neoclassicismo romano.
Mons. A. Galieti
Alberto Galieti nacque a Civita Lavinia nel 1882; compiuti gli studi ecclesiastici fu ordinato sacerdote nel 1905, divenne prima cappellano dell’oratorio dell’Immacolata, poi Canonico della Collegiata. Il vescovo, apprezzando la sua vasta e profonda cultura lo nominò segretario della Commissione Diocesana per l’Arte Sacra e Direttore della Biblioteca Vescovile.
Di carattere semplice e cordiale, non utilizzò mai il titolo di Monsignore.
Dopo l’istituzione nel Regno d’Italia della nuova figura di Ispettore Onorario della Sovrintendenza ai Monumenti e Scavi, il 27 luglio 1907, il Galieti fu chiamato poco dopo a ricoprire questo incarico. Ricordiamo che negli stati preunitari, la tutela dei cosiddetti beni culturali era svolta centralmente, solo nello Stato Pontificio e nel Regno di Napoli; negli altri Stati c’erano solo musei, accademie, ed altre istituzioni locali che raccoglievano reperti storici e pubblicavano scoperte archeologiche, spesso anche con grande professionalità.
Dopo l’unità d’Italia, la materia Beni Culturali fu affidata, nel 1875, ad una direzione generale presso il Ministero della Pubblica Istruzione e articolata in Sopraintendenze territoriali; le vecchie istituzioni locali non furono soppresse ma, furono limitate nella loro autonomia, specialmente per quanto riguarda la possibilità di conservare i reperti localmente; ben presto si appalesò l’incapacità dello stato centrale, di poter tutelare capillarmente il territorio, sia per l’ estensione, sia per la mancanza di personale, sia per l’abbondante quantità di materiale archeologico che via via veniva alla luce. Si pensò, per ovviare a ciò, di estendere l’azione delle sopraintendenze, creando una rete di Ispettori Onorari, scelti tra persone che, per professione, cultura o per passione, si interessassero ai beni colturali.
Nel 1912, il direttore delle Antichità e delle Belle Arti, Corrado Ricci riunì in un congresso questi Ispettori e, ne elogiò l’importantissimo ruolo nella salvaguardia del patrimonio archeologico. Galieti rappresentava il prototipo di questi ispettori che, spesso lavoravano contro tutto e tutti, in generale per mancanza di sensibilità e cultura specifica, ma anche per interesse: in primis i tombaroli che saccheggiavano i reperti traendone vantaggi economici svendendo opere ai privati, poi i costruttori che consideravano i reperti Archeologici un ostacolo e non una opportunità, e spesso distruggevano quanto portato alla luce, nel timore che i lavori potessero essere bloccati.(1)
Il primo lavoro scientifico del Galieti compare nel 1909 nella rivista: ”L’arte di Adolfo Venturi” con uno studio in cui rievoca la storia della Chiesa Medioevale di Civita Lavinia; tutta la produzione scientifica successiva, è stata di argomento archeologico e storico con particolare riguardo all’area dei castelli romani (Lanuvio, Genzano, Nemi, Albano, Ariccia, Bovillae, Maecium, Velletri, ma anche Ardea, Cisterna di Latina), spaziando dalla storia della Repubblica romana del 1798, alla storia dei Colonna, dalla battaglia di Lepanto, alla storia dei Cesarini, dalla storia della diocesi suburbicaria di Albano, alla storia delle religioni con i culti pagani, dallo studio dell’infiorata di Genzano, alle società di assicurazione dell’antica Roma, pubblicando su prestigiose riviste nazionali ed internazionali anche in lingua francese e tedesca.
In particolare a Lanuvio non tralasciò lo studio di nessuno dei reperti archeologici, Tempio di Giunone Sospita, Tempio di Ercole, Via Astura, ville suburbane dei colli circostanti, collaborò alla realizzazione della Guida dei dintorni di Roma redigendo sia quella relativa a Lanuvio e a Genzano, studiò le Catacombe di Albano si interessò di Arte sacra ad esempio con lo studio del Calvario del Gaulli nella Collegiata; Lanuvio in particolare deve moltissimo al Galieti: tutta la sua storia specialmente quella relativa al periodo medioevale, sarebbe rimasta nell’oblio più assoluto se non avesse fortunatamente trascritto e studiato alcuni degli importantissimi documenti medioevali di Lanuvio (purtroppo solo una parte) presenti nell’archivio storico lanuvino, andato completamente distrutto durante il secondo conflitto mondiale.
Tra le scoperte archeologiche più importanti, la tomba di un nobile guerriero latino del V sec. trovata nel 1934 e portata al Congresso Nazionale di Studi Romani l’anno successivo, quasi unica nel suo genere, fornendo un contributo fondamentale alla conoscenza dell’armatura dei Prisci Latini. (2)
Per tale produzione scientifica fu nominato corrispondente dell’Istituto Archeologico Germanico e Socio della Regia Società Romana di Storia Patria. Ricevette molte onorificenze tra la quali: Cameriere segreto sopranumerario del Papa, Cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia.
Possedeva una grande biblioteca andata quasi completamente distrutta durante il secondo conflitto: prima dai tedeschi che la gettarono dalla finestra (vi è la testimonianza di un salesiano laico, il Signor Francesco che ne raccolse una grossa parte semidistrutta, e la mise al sicuro nell’istituto dei Salesiani che successivamente la riconsegnarono a Galieti, poi vi fu il bombardamento successivo, che distrusse quasi completamente Lanuvio compresa la sua abitazione. Il suo ultimo lavoro rimasto incompiuto, era relativo alla storia omnia di Lanuvio purtroppo la morte sopraggiunse nel 1954 e gli appunti sono andati in parte dispersi. (1-3)
Al Galieti si deve inoltre la creazione del museo lanuvino nell’edificio comunale (anche se del museo lanuvino ne parla Tomassetti già dal 1882); fu infatti dietro il suo impulso che il 12 Gennaio del 1913, il Comune di Civita Lavinia, mediante una delibera di Consiglio Comunale mise a disposizione i locali al pianoterra del Municipio per istituire un Museo Civico con la denominazione di Museo Lanuvino. In quell’occasione il Comune si interessò anche dell’impiantistica e dello stanziamento di £. 300 per la manutenzione e l’incremento della raccolta.(4)
COLINI A.MARIA, Don Alberto Galieti (1882-1954),in <<Archeologia e Società>>, a. II Gennaio- Febbraio 1976, pp. 40-43.
FREZZA S., Lanuvini nella Storia, Lanuvio 2003, pp.103-107
MERCURI E., Lanuvio nella sua storia, A. GALIETI, Guida e scritti, Editrice del Carretto, Roma,1979, pp. 90-93.
DI MARIA TERESA D’ALESSIO,CECILIA D’ELIA et. alt.. Ai confini di Roma: Tesori archeologici dai musei della provincia, Gangemi Editore 2010, p. 175.
Giacomo Lauri Volpi
Alcune fonti indicano erroneamente Giacomo Lauri Volpi come figlio di un fornaio, in realtà Enrico Volpi era invece un piccolo proprietario terriero e commerciante (all’ingrosso) di vini.
Fu un fratello di Lauri Volpi ad aprire un negozio di derrate alimentari, forse da ciò è uscita la notizia del padre fornaio. Tra l’altro, fu proprio a causa di questo esercizio che Enrico Volpi morì: i dazieri di Lanuvio accusarono, ingiustamente, il figlio del mancato pagamento del dazio su alcune derrate. Era previsto l’arresto (il cosiddetto carcere preventivo, in attesa che fosse provata l’innocenza dell’accusato) e il padre si offrì di andare in prigione nel carcere mandamentale di Genzano al posto del figlio (il che lascia presumere che il padre fosse comproprietario dell’esercizio).
Il figlio Giacomo, allora di otto anni, ottenne il permesso di andare a dormire col padre in carcere e, percorreva a piedi tutti i giorni il tratto Lanuvio-Genzano. Per il padre, lo stress emotivo di vedersi ingiustamente imprigionato fu così penoso, che fu colpito da un ictus fatale quando era ancora in carcere, mentre era già stato firmato il provvedimento di Grazia Sovrana e quindi annunziata l’assoluzione, essendosi riconosciuta l’infondatezza dell’accusa.
Alla morte del padre seguirono contrasti e contese tra i fratelli per motivi d’interesse. Lo zio che accolse Giacomo ad Ariccia era Augusto Tomasi, primo amministratore del principe Chigi, e uomo facoltoso.
Allora nelle città di provincia l’unico modo per continuare gli studi dopo le elementari era di entrare in seminario, per poi uscirne a studi finiti. Giacomo Volpi, benché religiosissimo, sentiva di non avere la minima attitudine al sacerdozio.
Frequentò quindi il ginnasio presso il seminario di Albano Laziale (e fu proprio qui che emerse la sua vocazione al canto: come membro del coro, la sua voce, nel “Va’ pensiero” sovrastava tutte le altre nella frase “arpa d’or de’ fatidici vati” tanto che l’organista interruppe l’accompagnamento e da parte di molti gli fu consigliato di studiare canto).
Le prime due classi del liceo Giacomo le frequentò presso il Collegio Leonino di Anagni (quivi l’insegnamento del latino e del greco era impartito da gesuiti di straordinaria bravura: tanto che Giacomo rimase per tutta la vita un eccellente latinista).
Dal Collegio Leonino ( e quindi dal seminario) uscì dopo aver frequentato il secondo liceo classico. L’ultimo anno lo frequentò ad Alatri, cittadina, dove conseguì la maturità classica; quindi s’iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’università di Roma (dove conseguirà la laurea) e, contemporaneamente, all’Accademia di Santa Cecilia, facendo lo studente pendolare ogni giorno tra Lanuvio e Roma.
Fu durante il periodo universitario che Giacomo Volpi (aggiungerà “il” Lauri in seguito per distinguersi da altri due tenori che portavano lo stesso suo nome) iniziò lo studio del canto con il grande e ormai anziano baritono e didatta Antonio Cotogni.
Nel 1915 Giacomo fu chiamato alle armi, e prese parte alla Prima Guerra Mondiale. Ritorna nel 1918, ma il vecchio maestro Cotogni è da poco scomparso, decide di riprendere gli studi all’Accademia di Santa Cecilia, questa volta sotto la guida di A. Rosati.
Dopo aver fatto esperienza in alcuni concerti e audizioni, debutta per la prima volta in un’opera il 2 settembre 1919 a Viterbo, Teatro dell’Unione con il nome d’arte Giacomo Rubini in I Puritani di Vincenzo Bellini e in seguito in Rigoletto.
Il 3 gennaio del 1920 si presenta come Giacomo Lauri Volpi, al Teatro Costanzi di Roma in Manon di Jules Massenet a fianco di Rosina Storchio e con la direzione di Gabriele Santini (ricordiamo che “Giacomo Lauri Volpi” non fu un nome d’arte, giacché, la variazione del cognome venne da lui richiesta e in seguito ratificata con un Regio Decreto, che trasformò ufficialmente il cognome Volpi in Lauri Volpi).
Tra giugno e settembre del 1920, si trasferisce in Sud America, dove avrà l’occasione di esibirsi in Brasile, Rio de Janeiro e São Paulo (Manon, Rigoletto, Barbiere di Siviglia, Isabella Orsini di Renato Brogi), e in Argentina a Buenos Aires, Teatro Coliseo (Rigoletto, Manon e Barbiere di Siviglia).
Al rientro in Italia lo troviamo, tra l’altro, a Trieste (Teatro Rossetti) in Manon e poi in Rigoletto a fianco del mitico baritono Mattia Battistini.
Nel febbraio del 1921 inizia una tournée in terra spagnola che durerà fino al mese di giugno, toccando le città di Madrid, Valencia, Saragozza, Gijon, Oviedo, Aviles. Vi ritornerà poi in autunno aggiungendo le città di Villadoid, San Sebastiano, Santander, Bilbao, Pamplona, Logroso. Chiuderà il 1921 con I Puritani al Teatro Malibran di Venezia a fianco di Mercedes Capsir.
Il 14 gennaio del 1922 debutta al Teatro alla Scala di Milano come Duca di Mantova in Rigoletto con protagonista Carlo Galeffi e Toti Dal Monte quale Gilda con la direzione di Arturo Toscanini.
Giacomo Lauri Volpi durante le recite di questo Rigoletto, entrò in polemica con il maestro, in merito alla tradizionale “cadenza” da tenere nella celebre romanza “La donna è mobile”, ostentata dal maestro, diverbio, che verosimilmente, costerà a Lauri Volpi la partecipazione alla prima assoluta di Turandot (25.4.1926), quando il maestro Toscanini, ignorò l’affermazione senza equivoci di Giuseppe Adami (anche se tale affermazione non è da tutti riconosciuta), che Puccini aveva scritto l’opera pensando alla voce di Giacomo Lauri Volpi quale Calaf, ciò nonostante, Toscanini gli preferirà il tenore spagnolo Miguel Fleta, che canterà in sole due recite, sostituito poi dal tenore siciliano Franco Lo Giudice.
A tal proposito è utile citare ciò che parecchi anni dopo il maestro Antonino Votto (che era al pianoforte durante le prove del citato Rigoletto) ebbe a dire in proposito: “quando Lauri Volpi gli disse che anche Caruso la faceva (la cadenza della Donna è mobile. [n.d.r.] ), il Maestro rispose, che Caruso la faceva, ma con un’altra voce e in un altro modo”. Allora si manifestò il dissapore, perché dopo le quattro recite d’abbonamento di Rigoletto la parte del Duca di Mantova fu sostenuta da un nostro tenore “utilité”, Alessio De Paolis, il quale fece le altre recite”.
Per i successivi sette anni Lauri Volpi non canterà più sotto la guida di Arturo Toscanini.
Sarà tuttavia, merito del tenore di Lanuvio, se l’incompiuta opera del maestro Puccini, avrà subito immediata popolarità nei maggiori teatri d’Europa e delle due Americhe, tanto da “concepirlo” come il vero creatore del ruolo del Principe ignoto.
Dopo l’esperienza del Rigoletto scaligero ritorna in Spagna, non perde tuttavia l’occasione di debuttare a Monte Carlo in La Bohème (3 marzo) a fianco del soprano Maria Ros che in seguito diventerà sua moglie.
Dal mese di maggio, attraversato l’oceano, si presenta nuovamente al pubblico sudamericano che lo tratterrà nei suoi teatri fino alla fine dell’anno.
Il 26 gennaio del 1923 debutta al Teatro Metropolitan di New York in Rigoletto, a fianco di Giuseppe De Luca e Amelita Galli-Curci.
Si tratterrà nel massimo teatro di New York ininterrottamente dal 1923 al 1933, producendosi in 296 recite nelle seguenti opere – Rigoletto, Bohème, Traviata, Tosca, Barbiere di Siviglia, Anima Allegra (di Franco Vittadini), Cavalleria rusticana, Pagliacci, Lucia di Lammermoor, Roi de Lahore (di Jules Massenet), Andrea Chénier, Madama Butterfly, Giovanni Gallurese (di Italo Montemezzi), Aida, Gioconda, Mefistofele, L’Africana, Gianni Schicchi, Faust, La Vestale, Turandot (in prima assoluta per gli Stati Uniti), Norma, Il trovatore, Luisa Miller, Guglielmo Tell, Sonnambula, Manon – Parteciperà inoltre a undici Concerti e Gala. Concluderà il suo rapporto con il Metropolitan il 14 marzo 1933, a Baltimora, con una recita di Pagliacci a fianco di Lucrezia Bori e Armando Borgioli.
Nel giugno del 1924 debutta in concerto a Parigi, ritornandovi l’anno venturo al Théâtre Gaieté Lyrique con Rigoletto e Tosca in quest’ultima con Mary Garden quale Floria Tosca.
Il 1925 è l’anno del debutto al Covent Garden di Londra (Andrea Chénier). Chiuderà l’anno con tre produzioni al Teatro Malibran di Venezia (Tosca, Andrea Chénier e Puritani) e con il debutto in Manon Lescaut di Puccini al Teatro Regio di Torino.
Tra il 1925 e i primi mesi del 1928 lo troviamo impegnato soprattutto al Metropolitan di New York, in Brasile, Cile e Argentina.
Il 26 giugno 1925, a soli due mesi dalla prima assoluta, canta Teatro Colón di Buenos Aires nella prima locale di Turandot con Claudia Muzio nel ruolo del titolo e Rosetta Pampanini in quello di Liù.
In questo teatro dal 1922 al 1939 canterà in otto stagioni e quarantuno produzioni.
Stagione 1922: Rigoletto, Tosca, Barbiere di Siviglia, Favorita, Gianni Schicchi, La Bohème, La Traviata (debutto).
Stagione 1926: Andrea Chénier, Cavalleria rusticana , Turandot (debutto),
Tosca, Aida Traviata (tutte a fianco di Claudia Muzio), Rigoletto, Gioconda .
Stagione 1927: Rigoletto, Norma (debutto), Trovatore (debutto), Andrea Chénier, Wally e Bohème (ancora con la Muzio), Lucia di Lammermoor .
Stagione 1928: Aida, Trovatore, Tosca, Carmen, Pagliacci (debutto).
Stagione 1930: Trovatore, Bohème, Guglielmo Tell.
Stagione 1932: Aida, Tosca, Bohème, Pagliacci .
Stagione 1937: Aida, Tosca, Rigoletto, Trovatore.
Stagione 1939: Tosca, Turandot, Aida.
Il 7 marzo del 1928 canta al Teatro Reale dell’Opera di Roma in Aida con Bianca Scacciati, Fanny Anitua e Riccardo Stracciari, diretti da Gino Marinuzzi. seguiranno Il trovatore, Tosca con Claudia Muzio e Riccardo Stracciari, Cavalleria rusticana con Claudia Muzio.
Dopo un Rigoletto al Politeama Fiorentino di Firenze (maggio), e una piccola tournée a Buenos Aires, debutta all’Arena di Verona con Rigoletto (18 e 21 agosto), seguito da una sola recita di Turandot il 19 agosto.
Nel maggio del 1929 debutta a Berlino Rigoletto con Carlo Galeffi e Toti Dal Monte e poi Trovatore. Nello stesso mese debutta anche alla Staatsoper di Vienna (Tosca), ritorna a Parigi (Opéra-Comique) con Tosca, Aida, Bohème, Pagliacci. Nel settembre/ottobre canta per la prima volta a San Francisco (Pagliacci, Aida, Faust) e Los Angeles (Aida, Faust, Rigoletto, Trovatore).
Nel febbraio del 1930 ritorna alla Scala di Milano con Il Trovatore e debutta il ruolo di Arnoldo in Guglielmo Tell, poi nell’aprile, a Roma e a Napoli ancora con Guglielmo Tell.
Dopo aver cantato: Rigoletto e Guglielmo Tell a Parigi, in agosto ritorna al Colón di Buenos Aires.
Nel 1939 (che sarà anche il suo ultimo anno oltre oceano), canta per la prima volta in La Fanciulla del West a Monte Carlo. Da qui in poi canterà principalmente in Italia e in Spagna.
A Milano debutta in Otello di Verdi al Teatro alla Scala il 14 febbraio del 1942, riprendendolo il mese dopo al San Carlo di Napoli.
Il 13 giugno del 1952 fa il suo debutto nel ruolo di Don Alvaro nella Forza del destino a Montreux in Svizzera, e nel 1955 (ormai sessantaduenne) in quello di Poliuto nell’omonima opera di Donizetti alle Terme di Caracalla a Roma (30 giugno).
Ormai ultrasessantenne canta tra l’altro, ancora a Roma (Fanciulla del West 1957), Venezia (Il trovatore 1958), Terme di Caracalla, Roma (Turandot 1958).
Il 7 febbraio del 1959 canterà la sua ultima opera al Teatro dell’Opera di Roma: Il trovatore a fianco di Caterina Mancini e Ugo Savarese.
Da qui fino al 1977, canterà ancora raramente e solo in concerto a Roma, Ariccia, Valencia, Barcellona, Novelda, Madrid.
Il 17 marzo del 1979 muore nella sua casa di Burjassot, in Spagna, una delle sue ultime dichiarazioni fu: “Il mio corpo alla Spagna, la mia anima a Dio e il mio cuore a Roma ”.
Ringrazio il Dott. Gian Paolo Nardoianni per avermi fornito il materiale riguardante l’infanzia e l’adolescenza del tenore.
REPERTORIO IN ORDINE CRONOLOGICO
I PURITANI di Bellini (Viterbo, 2 settembre 1919)
RIGOLETTO di Verdi (Viterbo, 12 settembre 1919)
MANON di Massenet (Roma, 3 gennaio 1920)
GIANNI SCHICCHI di Puccini (Roma, 14 marzo 1920)
IL BARBIERE DI SIVIGLIA di Rossini (Roma, 3 aprile 1920)
ISABELLA ORSINI di Brogi (Rio de Janeiro, 26 luglio 1920 )
LA BOHÈME di Puccini (Madrid, 1 marzo 1921)
TOSCA di Puccini (Madrid, 12 marzo 1921)
FAUST di Gounod (Valladolid, ottobre 1921)
LA FAVORITA di Donizetti (Madrid, febbraio 1922)
MADAMA BUTTERFLY di Puccini (Montecarlo, Marzo 1922)
LA TRAVIATA di Verdi (Buenos Aires, 26 luglio 1922)
CAVALLERIA RUSTICANA di Mascagni (Rio de Janeiro, 5 ottobre 1922)
DON CASMURRO di Gomes (Rio de Janeiro, 12 ottobre 1922)
ANIMA ALLEGRA di Vittadini (New York, 14 febbraio 1923)
LUCIA DI LAMMERMOOR di Donizetti (Chicago, agosto 1923)
ANDREA CHÉNIER di Giordano (Chicago, agosto 1923)
IL RE DI LAHORE di Massenet (New York, 29 febbraio 1924)
CARMEN di Bizet (Chicago, settembre 1924)
MARTA di Flotow (Chicago, settembre 1924)
L’ELISIR D’AMORE di Donizetti (Chicago, settembre 1924)
FRA DIAVOLO di Auber (Chicago, settembre 1924)
AIDA di Verdi (Chicago, settembre 1924)
GIOVANNI GALLURESE di Montemezzi (New York, 19 febbraio 1925)
LA GIOCONDA di Ponchielli (Atlanta, 20 aprile 1925)
MEFISTOFELE di Boito (Atlanta, 24 aprile 1925)
L’AFRICANA di Meyerbeer (Cleveland, 27 aprile 1925)
MANON LESCAUT di Puccini (Torino, 29 dicembre 1925)
TURANDOT di Puccini (Buenos Aires, 25 giugno 1926)
LA VESTALE di Spontini (New York, 1 novembre 1926)
NORMA di Bellini (Buenos Aires, 25 maggio 1927)
IL TROVATORE di Verdi (Buenos Aires, 10 giugno 1927)
LA WALLY di Catalani (Buenos Aires, 5 luglio 1927)
NERONE di Boito (Roma, 27 febbraio 1928)
I PAGLIACCI di Leoncavallo (Buenos Aires, 26 giugno 1928)
LUISA MILLER di Verdi (New York, 21 dicembre 1929)
GUGLIELMO TELL di Rossini (Milano, 1 marzo 1930)
LA SONNAMBULA di Bellini (New York, 11 febbraio 1933)
GLI UGONOTTI di Meyerbeer (Verona, 29 luglio 1933)
LA CENA DELLE BEFFE di Giordano (Roma, 11 aprile 1934)
UN BALLO IN MASCHERA di Verdi (Firenze, 12 maggio 1935)
WERTHER di Massenet (Parigi, 21 giugno 1935)
LA FANCIULLA DEL WEST di Puccini (Montecarlo, febbraio 1939)
OTELLO di Verdi (Milano, 14 febbraio 1942)
LA FORZA DEL DESTINO di Verdi (Montreux, 13 giugno 1952)
POLIUTO di Donizetti (Roma, 30 giugno 1955)
Oltre che grande artista fu anche un valente scrittore, lascia alcuni libri e saggi che qui elenchiamo:
L’equivoco, Corbaccio, Milano, 1938 – Ristampato da Bongiovanni, Bologna, 1979
A viso aperto, Bongiovanni, Bologna, 1982/83
La prode terra, Corbaccio, Milano 1939
Cristalli viventi, Atlantica, Roma 1948
Voci parallele, Garzanti, Milano, 1955 – Ristampato da Bongiovanni, Bologna, 1977
La voce di Cristo
Parlando a Maria
I misteri della voce umana
Incontri e scontri, Trevi, Roma.
DISCOGRAFIA
La sua discografia è imponente, comprende un centinaio di incisioni acustiche ed elettrice, tutte in seguito riversate in LP e in CD, oltre ad acune opere complete:
Dischi Acustici
Fonotipia Milano 1922
Odeon spagnola Buenos Aires 1922
Nazionale Buenos Aires 1922
Brunswick Records 1923-26
Dischi Elettrici
Odeon spagnola – Buenos Aires 1928
Parlophon – Buenos Aires 1928
Victor Usa 1928-30
HMV Milano 1934
Opere complete
LUISA MILLER (G. VERDI)
Rodolfo – Giacomo Lauri-Volpi
Luisa – Lucy Kelston
Federica – Mitì Truccato Pace
Walther – Giacomo Vaghi
Wurm – Duilio Baronti
Miller – Scipio Colombo
Orchestra e coro della Radio Italiana
Dir.: Mario Rossi – 13 febbraio 1951, Roma
Cetra Soria Set 1221 (3 Lps) – Cetra Lps 3221; Lpo 2022
IL TROVATORE (G. VERDI)
Manrico – Giacomo Lauri-Volpi
Leonora – Caterina Mancini
Azucena – Miriam Pirazzini
Di Luna – Carlo Tagliabue
Fernando – Alfredo Colella
Orchestra e coro della Radio Italiana
Dir.: Fernando Previtali – 21 maggio 1951, Roma – Cetra Soria Set 1226 (3 Lps) – Cetra Lps 3226; Lpo 2027 – Turnabout/Vox THS 65037/8/9 – GOP/Albany (2CD)
LA BOHÉME (G. PUCCINI)
Rodolfo – Giacomo Lauri-Volpi
Mimì – Frances Schimenti
Musetta – Mafalda Micheluzzi
Marcello – Giovanni Ciavola
Colline – Victor Tatozzi
Schaunard – Enzo lima
Orchestra e coro del Teatro dell’Opera di Roma
Dir.: Alberto Paoletti – 12/14 aprile 1952, Roma – Remington Set 199-99 (3 Lps) e Royale 1542-3 – GALA-GL1008O1 (2CD)
GLI UGONOTTI (G. MEYERBEER)
Raoul – Giacomo Lauri-Volpi
Margherita – Antonietta Pastore
Valentina – Anna De Cavalieri
Urbano – Jolanda Gardino
Nevers – Giuseppe Taddei
Marcello – Nicola Zaccaria
St. Bris – Giorgio Tozzi
Orchestra e coro della Radio Italiana
Dir.: Tullio Seraf in – 23 ottobre 1955, Milano
Golden Age of Opera EJS-i16 (4 Lps) – Bongiovanni HOC043/45 (3 CD)
IL TROVATORE (G. VERDI)
Manrico – Giacomo Lauri-Volpi
Leonora – Maria Callas
Azucena – Cloe Elmo
Il Conte di Luna – Paolo Silveri
Fernando – Italo Tajo
Orchestra e coro del Teatro San Carlo
Dir.: Tullio Serafin – 27 gennaio 1951, Napoli
FWR 654 (2 Lps) – CETRA Classic Collection CDO (2 CD) – Melodram MEL 26001 (2 CDs) – Enterprise Documents ENTLV 948 (2 CD) – Pantheon PHE 6636/37 (2 CD)
IL TROVATORE (G. VERDI)
Manrico – Giacomo Lauri-Volpi
Leonora – Gigliola Frazzoni
Il Conte di Luna – Rolando Panerai
Azucena – Franca Marghinotti
Ferrando – Giorgio Algorta
Ines – Marijke van der Lugt
Riuz – Johan van Haagen
Dir. Arturo Basile – 16 ottobre 1954, Amsterdam
PONTO PO-1023 (2CD)
LA BOHÉME (G. PUCCINI)
Rodolfo – Giacomo Lauri-Volpi
Mimì – Renata Tebaldi
Musetta – Elda Ribetti
Marcello – Tito Gobbi
Colline – Giulio Neri
Schaunard – Saturno Meletti
Orchestra e coro del Teatro San Carlo
Dir.: Gabriele Santini – 10 gennaio 1951, Napoli
Golden Age of Opera EJS-358 (2 Lps) – ARPCL 22026 – AMDRL 22811 – Dynamic IDIS
Historical IDI64278 (2 CD)
Selezione da LA FANCIULLA DEL WEST (G. PUCCINI)
Dick Johnson – Giacomo Lauri-Volpi
Minnie – Maria Caniglia
Jack Rance – Raffaele De Falchi
Orchestra e coro del Teatro dell’Opera di Roma
Dir. Oliviero De Fabritiis – 24 gennaio 1952, Roma
Golden Age of Opera EJS-308 (1 Lp) – (1CD)
LA FAVORITA (G.Donizetti)
Fernando – Giacomo Lauri Volpi
Leonora – Franca Marghinotti
Alfonso XI – Rolando Panerai
Baldassarre – Jorge Algorta
Concertgebouw Orchestra
Dir. Arturo Basile – Amsterdam ottobre 1954
Ponto POCD1043 (2CD)
© Pietro Sandro Beato 2012
Cardinale Luigi Frezza
Arthur John Strutt
Cardinale Luigi Trombetta
Monsignor Salvatore Baccarini, Vescovo della diocesi di Terracina, Sezze, Priverno
Francesco Giordani, Vescovo di Alatri
Bernardino Iacomini: (1620-1652) si distinse nella guerra tra Urbano VII ed il duca di Parma
Don Pio Frezza, fondatore dell’Ordine Suore Operaie di Gesù, in corso di beatificazione