La città di Lanuvio è situata in provincia di Roma e precisamente a 33 km a sud est della stessa.
L’odierno centro urbano insiste sul sito dell’antico Lanuvium, ben identificato quest’ultimo grazie alle testimonianze di Strabone e di Appiano.
Sulle presunte origini di Lanuvio, ci sono pervenute una serie di tradizioni tra loro contrastanti, cosa questa tra l’altro riscontrabile per altre città del Lazio antico. La prima che si rifà al filone greco-argivo era quella tramandata da Appiano, secondo cui la fondazione di Lanuvio dovrebbe riferirsi a Diomede figlio di Tideo, signore di Argo.
La seconda, invece, relativa al filone troiano, è emersa grazie al ritrovamento di frammenti di intonaco rinvenuti nel 1969 a Taormina e appartenenti al ginnasio dell’antica Tauromenion, dove si parla di Fabio Pittore, primo annalista romano, e gli si attribuisce la narrazione dell’arrivo in Italia, in seguito alla guerra di Troia, di un certo Lanoios, fondatore nel Lazio di una cittadina, che avrebbe preso da lui il nome.
Studi sulla veridicità di queste tradizioni si sono susseguiti nel tempo, e tra l’altro gli ultimi progressi della ricerca archeologica hanno restituito loro un buon margine di credibilità, anche se alcune di esse sono da prendere cum grano salis.
Per Lanuvio, infatti, c’è discordanza tra le fonti antiche, che riporterebbero la fondazione della cittadina agli anni immediatamente successivi alla guerra di Troia (1180-1170 a.C.), e le testimonianze archeologiche i cui reperti più antichi, rinvenuti sul colle San Lorenzo, si datano al più presto agli inizi del IX secolo a.C..
Le prime notizie attendibili che abbiamo della cittadina ci testimoniano che, sul finire del VI secolo a.C., faceva parte dei trenta populi della lega latina, populi che si riunivano nel lucus di Diana Nemorense. Insorse, insieme ad altre città latine, contro Roma, nella battaglia presso Aricia (504 a.C.), in quella del lago Regillo (496 a.C.), nel 383 a.C., nel 341 a.C., con esiti quasi sempre negativi. In seguito all’ultima e definitiva sconfitta avvenuta nel 338 a.C., perse, insieme alle altre cittadine del Latium Vetus, l’indipendenza, ma già nel 332 a.C. ottenne un trattamento di privilegio e la Civitas cum suffragio da parte di Roma, in cambio di ammettere il popolo romano ad amministrare la metà dei proventi del santuario di Giunone Sospita.
Dal 332 a.C. fino allo scoppio della prima guerra civile (87-86 a.C.), Lanuvio mantenne un elevato grado di benessere, ma parteggiando in questo ultimo frangente per Silia, venne ridotta da Mario a colonia militare. Siccome gli eventi di quegli anni erano soggetti a repentini mutamenti politici, avvenne che il partito mariano cadde in rovina e Lanuvio, in poco tempo, ritornò ad essere una cittadina di primissimo piano. Le fonti antiche, infatti, ci testimoniano come Lanuvio, a partire dall’età tardo-repubblicana, divenne meta dei personaggi più in vista della politica romana, vi ebbero dimora: M. Emilio Lepido, M. Giunio Bruto, Augusto e Marco Aurelio.
Diede poi i natali al console dell’anno 62 a.C. L. Licinio Murena e agli imperatori Antonino Pio e Commodo.
Con l’editto di Teodosio del 391 d.C., che sanciva il cristianesimo come unica religione dell’impero romano, iniziò la decadenza e l’inesorabile abbandono dell’antica Lanuvio. Questo editto comportò infatti anche l’immediata chiusura di tutti i templi pagani tra cui anche quello di Giunone Sospita, funzionante fin dal VI secolo a.C., e che era stato l’elemento propulsore della cittadina per dieci secoli.
Anche se il sito non fu abbandonato nei secoli successivi all’editto di Teodosio, notizie certe di esso si hanno soltanto a partire dalI’Xl secolo d.C., che, stando al Galieti, rinacque grazie all’opera dei monaci Benedettini col nome di Civita Lanuvina. Passò, dagli inizi del XV secolo, nelle mani dei Colonna, a cui rimase fino al 1564, anno in cui venne venduta, insieme ad Ardea, a Giuliano Sforza Cesarini al prezzo di 105.000 scudi.
I secoli dall’XI fino alla seconda metà dei XVI furono concitati per Lanuvio: saccheggi, assedi, donazioni.
Con l’avvento dei Cesarini prima e dei Cesarini-Sforza poi, si ebbe un periodo di relativa tranquillità. Fu solo alla fine del secolo XVIII che Lanuvio rischiò di essere rasa al suolo dalle truppe francesi che volevano vendicare la morte di alcuni compagni qui uccisi, mentre scoppiava la controrivoluzione sanfedista.
Nella seconda guerra mondiale, per l’importanza della sua posizione strategica, venne bombardato dal mare e sottoposto alle incursioni aeree delle armate alleate sbarcate ad Anzio. – Battaglia di Campoleone -.
Completamente distrutto, il paese risorse grazie allo spirito di iniziativa della popolazione lanuvina, ed esso è allo stato attuale uno dei più incantevoli luoghi dei Castelli Romani.
La Battaglia di Campoleone
Campoleone – Piazza Berlinguer
Campoleone fu l’obiettivo primario dei Britannici dell’”Operazione Shingle” lo sbarco Alleato a Nettunia (Anzio/Nettuno), il 22 gennaio 1944.
Dalla stazione, infatti, passavano i treni carichi di rifornimenti, per la 10° Armata tedesca, dislocata lungo la “Linea Gustav”. La prima battaglia, per la Stazione di Campoleone, si svolse dal 29 gennaio al 2 febbraio 1944 e gli alleati vennero respinti dalle truppe tedesche, dopo aver perso 1500 uomini.
Dopo tre mesi di dure battaglie, con continui spostamenti del fronte, il 27 maggio 1944, riprendono gli attacchi nella zona di Aprilia. Alle ore 10:00, le divisioni americane della 34° e 45° e la 1° Divisione Britannica attaccano in direzione di Aprilia, Campoleone e Lanuvio, ma con scarsi risultati.
Jeep della 45 Divisione, 179 Reggimento, vicino Lanuvio
Viene mandata in aiuto la 1° Divisione Corazzata americana, che sferra il suo attacco in direzione di Campoleone. Due compagnie, del 147° Reggimento Granatieri tedesco, vengono completamente distrutte. L’unica compagnia disponibile, la 7°, al comando del Ten. Heinrich Wunn, occupa la chiesa di Campoleone ed i casali vicini. La torre campanaria gli fornisce un perfetto posto di osservazione, per diversi chilometri all’interno. Il Ten. Wunn raccoglie anche i numerosi soldati tedeschi sbandati, che si stanno ritirando.
soldati US in città
Il Caposaldo “ Wunn “, diventa un avamposto chiave per la difesa di Roma e diventa inespugnabile. Il 30 maggio vengono respinti altri 5 attacchi alleati. La forza della 7° Compagnia è ridotta a 50 uomini. Gli alleati attaccano Campoleone per altre tre volte ed alla fine il Ten. Wunn, con 35 soldati rimasti, si ritirano per non venir circondati, lasciando sul campo nei giorni 30 e 31 maggio circa 70 carri alleati.
campo di pronto soccorso US nei pressi di Lanuvio
Lanuvio, situata in una posizione chiave dell’ultima linea difensiva tedesca (la Linea Caesar), viene attaccata dalla 34° Divisione americana dei fanteria “Red Bull”, del Gen. Ryder ma senza successo. L’intera avanzata verso Roma si blocca. Il 2 giugno, elementi della 34° Divisione, aiutati dal 100° Battaglione, formato da soldati americani di origine giapponese i “Nisei”, riescono ad annientare il nemico ed a superare la linea difensiva, entrando nell’abitato di Lanuvio. Il giorno successivo, il 100° libererà anche la strada per Genzano dalla retroguardia della 29° Divisione Panzergrenadier, trovandosi come avanguardia della 5° Armata Americana. Per questa azione i soldati Nisei ricevettero numerose decorazioni: 1 Medal of Honor; 6 Distinguished Service Medal ( DSG ); una Silver Star e tre Bronze Star.
soldati Nisei accampati nei pressi di Lanuvio
I soldati nippoamericani, cittadini americani, di origine giapponese (seconda generazione, appunto “Nisei“), inquadrati nel 100° Battaglione, successivamente affiancati dal 442° C.R.T di fanteria, combatterono nel 1944 a Cassino, Campoleone, Lanuvio, Livorno e Firenze. Ad ottobre furono spostati in Francia e poi, nel marzo del 1945, tornarono in Italia per sfondare la Linea Gotica, nel settore tirrenico. Con 18.143 decorazioni individuali quella dei Nisei, è stata l’unità dell’esercito degli Stati Uniti più decorata della Seconda Guerra Mondiale.
Lanoios e Diomede: alle origini dei miti lanuvini
Sulle origini mitiche di Lanuvio esistono due distinte tradizioni.
La prima si rifà allo storico greco Appiano (Alessandria, II sec. a.C.) che attribuisce la fondazione di Lanuvio a Diomede figlio di Tideo, signore di Argo.
In alcuni racconti del ciclo troiano, così come sono riferiti nell’Alexandra del poeta ellenistico Licofrone (nato intorno al 330 a.C.), la cui fonte era il lirico Mimnermo di Colofone (VII sec. a.C. – prima metà del VI secolo a.C.), si narrano le rocambolesche avventure dell’eroe etolo-argivo posteriori alla guerra di Troia e ignote all’epica omerica.
Dopo la conclusione del fatto bellico, Diomede, sfuggito – grazie all’aiuto di Era – agli agguati omicidi della moglie Egialea (la cui infedeltà era stata ispirata da Afrodite, offesa per l’oltraggio inflittole dall’eroe che l’aveva ferita a una mano durante un combattimento davanti alla città di Troia – Il. IX, vv. 578 segg.), era approdato in Italia ospitato dal re Dauno per mano del quale aveva poi trovato la morte.
Domenico Musti, in un suo fondamentale studio del 1988, individua proprio nell’antica Daunia (l’attuale parte settentrionale della Puglia) la principale area d’irradiazione del culto diomedeo in Italia nella quale l’eroe greco avrebbe assunto una funzione preminente che gli era del tutto estranea, nell’epica omerica, dove piuttosto gli veniva attribuito un ruolo complementare, se non di vera e propria subordinazione, rispetto ad altri personaggi mitici. In realtà, come nota ancora Musti, se si prescinde da Mimnermo e Ibico (Reggio, VI sec. a.C.), il periodo di attestazione della leggenda diomedea è abbastanza tardo. Essa viene diffusa nel corso del IV-III sec a.C. dalla tradizione greca che – proprio come quella romana in seguito (sebbene, naturalmente l’orientamento ideologico sia diverso) – utilizza la figura di Diomede a fini politico-propagandistici. Prendendo in prestito un’efficace immagine che Musti mutua da H. Strasburger, si può dire che, diffondendo il mito diomedeo fra i Dauni, i Greci donavano loro in realtà “una camicia di Nesso”, dunque un regalo solo in apparenza, in virtù del carattere anellenico, o piuttosto “ellenico-marginale”, di Diomede. Secondo questa logica i Dauni erano abbastanza prossimi ai Greci per essere accolti nelle trame del loro mito, mantenendo tuttavia la loro esplicita connotazione di “nemici”.
Per Roma, invece, soprattutto dopo l’alleanza del 326 a.C. con la città diomedea per eccellenza – Arpi – Diomede rappresentava un mezzo di avvicinamento culturale e politico con la Daunia, con la quale l’Urbe era solidale nell’assimilazione parziale e nella contemporanea alterità da Greci ed Etruschi, in funzione anti-sannita.
Dunque, per riassumere e puntualizzare alcuni aspetti, all’eroe etolo-argivo si attribuiva tutta una serie di fondazioni in Italia classificabili per omogeneità e contiguità degli spazi geografici interessati: la Daunia appunto (in cui, come detto, la presenza diomedea appare più antica), l’Apulia, il Sannio e l’Adriatico. Tuttavia a queste regioni, fra loro confinanti, se ne affiancava una che faceva eccezione, il Lazio, cui Diomede sarebbe giunto seguendo in parte il percorso della futura via Appia (lungo la quale avrebbe fondato Aequum Tuticum – da identificare nella loc. La Starza, presso Ariano Irpino -, Benevento e Lanuvio) e in parte quello della futura via Latina (Venafro).
Della presenza di Diomede nel Lazio c’è traccia solo in: 1) un accenno di Plutarco (Cheronea 46-119 d.C.) ad Emazione (Rom. 2,1), padre di Rhomos, ecista (eroe fondatore delle colonie) di Roma, che Diomede aveva inviato da Troia 2) un frammento dell’annalista L. Cassio Emina (II sec. a.C.) riportato da Solino (II sec. d.C.) nei suoi Collectanea Rerum Memorabilium (2,14) nel quale si dice che Enea avrebbe incontrato Diomede in agro Laurenti, cioè a Lavinium (odierna Pratica di Mare) e avrebbe da lui ricevuto il Palladio (l’antico simulacro della dea Atena che l’eroe avrebbe sottratto, insieme a Odisseo, alla città di Troia per renderla finalmente vulnerabile).
A Lanuvio, probabilmente, la presenza di Diomede – che giunge dopo e indipendentemente da Odisseo – è favorita anche dalla recezione nel Lazio della stessa saga dell’eroe di Itaca, sebbene i due personaggi siano arrivati in tempi distinti.
A questo punto, a complicare la questione delle origini mitiche di Lanuvio interviene la seconda tradizione, emersa grazie all’interpretazione di due iscrizioni rinvenute negli anni 60 del secolo scorso: nella prima, scoperta nel 1962, si parlava di una missione diplomatica centuripina a Roma e a Lanuvio e di un trattato basato sulla parentela tra queste città. Il testo, purtroppo frammentario, interpretato da Giacomo Manganaro, costituiva la pubblicazione del resoconto di un viaggio con finalità politiche e diplomatiche compiuto da tre ambasciatori centuripini che si erano recati in missione a Roma e a Lanuvio e avevano riportato copia di una deliberazione del senato di Lanuvio.
Dal documento si evince che la syngeneia tra Lanuvini e Centuripini fu rinnovata.
Nel secondo documento epigrafico – redatto in lettere rosse su alcuni frammenti di intonaco rinvenuti nel 1969 a Taormina e appartenenti al ginnasio dell’antica Tauromenion – si riferisce che Quinto Fabio Pittore (III sec. a.C.), primo annalista romano, narrò l’arrivo in Italia con Enea, in seguito alla guerra di Troia, di un certo Lanoios, fondatore nel Lazio di una cittadina che avrebbe preso da lui il nome, Lanuvio appunto. Ora la menzione in Fabio Pittore di Lanoios accanto a Enea potrebbe mostrare che le fondazioni di Lavinio-Roma e di Lanuvio erano connesse tramite questi due eroi alleati tra loro, e il luogo stesso di ritrovamento dell’iscrizione sembrerebbe confermare l’interesse della Sicilia ellenistica per la città del Lazio.
A questo proposito, infatti, in alcuni brani delle orazioni contro Verre di Cicerone (II 163; IV 72; V 83; V 125), si ricorda la cognatio o syngeneia (ossia l’idea di “consanguineità”, anche di matrice mitologica, usata nell’ambito delle relazioni politiche e diplomatiche tra Greci e Greci o anche tra Greci e popoli di altra stirpe) che univa i Romani e i Segestani, anch’essi, secondo la tradizione, esuli da Troia come i Romani. Non era chiara, invece, l’affermazione di Cicerone in relazione ai Centuripini, anche se l’alleanza tra Enea e l’ecista di Lanuvio, da un lato, e la parentela di quest’ultima con Centuripe dall’altro, attestate dalle nuove iscrizioni, sembra illuminare la complicata questione. Centuripe, infatti, fu fondata dai Siculi (che, secondo la tradizione, erano una popolazione originariamente stanziata nel Lazio, via via sospinta da successive invasioni verso il sud dell’Italia, e da qui passata in Sicilia) e, solo più tardi, ellenizzata.
Città sicule del Lazio sarebbero state Caenina, Antemnae, Falerii, Fescennium, Tivoli e, infine, Ariccia. Anche se dall’elenco suddetto, quasi sicuramente incompleto, non risulta il nome di Lanuvio, la menzione della città a questa più vicina, Ariccia, appare piuttosto significativa: il gemellaggio antico tra Lanuvio e Centuripe era sentito come un legame etnico, dovuto all’emigrazione di genti protolatine (i Siculi) nella Sicilia, in un’epoca successiva alla guerra di Troia, alla fine del II millennio a.C. Quando Cesare concesse lo ius Latii (la cittadinanza latina) alle città della Sicilia, dovette tener conto di questa syngeneia mitologica.
Taluni, in virtù di quanto s’è detto, ritengono che agli anni immediatamente successivi al 44 a.C. vada datata l’iscrizione di Centuripe, nella quale Lanuvio è appunto chiamata apoikia. Interessante è anche il fatto che Fabio Pittore, punto di riferimento della storiografia romana, non conosca o non consideri Diomede come ecista di Lanuvio ma attribuisca l’origine della città a un più autonomo compagno di Enea. Dunque, probabilmente, è sulla funzionalità del mito, più che sulla cronologia, che occorre basarsi per venire a capo della faccenda. Cronologicamente i due eroi potrebbero essersi avvicendati e quindi sostituiti uno all’altro. Sarebbe perciò plausibile, come sostiene Anna Pasqualini, che Lanuvio abbia recepito il mito diomedeo nel momento più difficile del suo conflitto con Roma, cioè quando era alleata, insieme ad altre città del Lazio, con Velletri.
È probabile che, in quella circostanza, i Lanuvini abbiano voluto sottolineare la propria politica filosiracusana accogliendo come ecista una figura gradita a Dionisio II il Giovane (tiranno di Siracusa, vissuto tra il 397 e il 344 a.C.) caratterizzata da forti connotazioni antiromane. Inoltre il mito di Diomede avrebbe fatto presa a Lanuvio più che altrove proprio in virtù del culto di Giunone Sospita che richiamava l’Era argiva, protettrice dell’eroe, sebbene Cicerone, nel suo De Natura Deorum (I, 29, 82), tenga a ribadire le differenze fra le dee (citando anche la Iuno romana). In seguito, mutata la situazione politica, i Lanuvini accolsero la tradizione secondo cui il siculo Lanoios avrebbe fondato la loro città, probabilmente nel corso della I guerra punica (264-241 a.C.), quando Centuripe si arrese a Roma e cessò di subire l’influenza siracusana ostile all’Urbe. A questo punto Lanuvio era pronta ad accogliere, nel proprio bagaglio mitologico proveniente da Centuripe, un fondatore troiano e ad essere considerata addirittura una sua apoikia, sottolineando in tal modo la piena adesione ai modelli culturali di Roma. Nel frattempo Diomede era divenuto incompatibile con la nuova situazione politica, tuttavia – fatto strano – fu la sua memoria a persistere mentre Lanoios cadde nel silenzio.
Anna Pasqualini dopo aver messo in luce il fatto che probabilmente Diomede approdò a Lanuvio dopo l’eroe troiano Lanoios, cosa che gli avrebbe fatto lasciare una traccia più duratura, ipotizza che la nobile famiglia dei Papii di Compsa (in Campania) si sarebbe trasferita nel corso del II secolo nel Lazio, portando a Lanuvio le proprie tradizioni e i propri miti familiari, tra cui quello di Diomede. Essi, in virtù della loro posizione di spicco, tentarono probabilmente di imporre alla città l’eroe della loro terra d’origine, ma esso, a causa delle caratteristiche antiromane che gli erano state attribuite durante la guerra annibalica (e che gli rimasero proprie anche in età augustea quando, grazie al perduto poema epico Diomedea di Iullo Antonio – politico particolarmente legato alla dinastia giulio-claudia e vissuto dal 45 al 2 a.C. – venne a rappresentare il campione d’Oriente – Antonio – contrapposto al campione d’Occidente Enea/Augusto), fu scartato a favore di Lanoios. Nel III secolo Fabio Pittore enfatizzò la vicenda di Lanoios come ecista eponimo di Lanuvio, proveniente da una città alleata e amica, probabilmente perché il gemellaggio tra le due città era un fatto recente e sanciva, a livello mitico, l’affinità etnica e politica tra Latini e Siculi.
Ancora sulle origini di Lanuvio
Non abbiamo documenti storici sulla fondazione di Lanuvio, ma solo qualche reperto archeologico, da cui si deduce l’esistenza di un nucleo abitato fin dal Mille a.C. (cfr. Lanuvio, di A. Galieti).
Effettivamente, la collina, sulla cui cima fu fondata Lanuvium, che si erge maestosa e si proietta come un promontorio a più di trecento metri sul mare nella piana ondulata sottostante, dovette essere un sicuro rifugio e baluardo contro eventuali rapinatori, per i pastori e gli agricoltori della zona; i resti imponenti della “poderosa cinta di mura”, risalente al V sec. a.C. lo dimostrano.
Col passare dei secoli, Lanuvium divenne un centro importantissimo e prestigioso, specialmente per la presenza in esso del famosissimo tempio di Giunone Sospita (o Sispita), venerata da tutti i popoli circonvicini con frequenti pellegrinaggi e copiose offerte.
In seguito, anche Roma, divenuta potenza egemone nel Lazio, ne divenne devota e ne pretese la compartecipazione agli utili.
Era usanza, nell’antichità, far risalire la propria origine ad un eroe mitico famoso, che desse onore e prestigio. Così il popolo romano fece risalire le proprie origini al mitico Enea, eroe dell’Iliade di Omero, dalla cui stirpe sarebbero nati Romolo e Remo, fondatori di Roma.
Tutte le città del bacino mediterraneo, dove prosperò la civiltà greco-romana, ebbero il loro eroe eponimo. La fonte era, per quasi tutte le città, i poemi omerici, con la loro colluvie di eroi.
Per Lanuvio fu trovato nientemeno che Diomede, come ci attesta Appiano il quale, nel II sec. d.C., scrisse in Greco una “Storia Romana”.
Sappiamo, da altre fonti storiche, che moltissime città dell’area italica si attribuirono l’onore di avere per mitico fondatore Diomede, figlio di Tideo e re di Argo. Secondo il Galieti, “questo racconto dipende… dalla somiglianza… tra la Giunone argiva, divinità tutelare di Argo, e Giunone Sospita, la dea protettrice di Lanuvio, ambedue vestite di nebride ed armate di scudo e di lancia, quando venne di moda vantare una qualche parentela con i Greci”.
Ma nel 1974 fu scoperta a Taormina, in Sicilia, un’epigrafe che riporta una frase dello scrittore romano Quinto Fabio Pittore, il quale per primo scrisse una “Storia di Roma” in Greco (per i Greci) intorno al 200 a.C. Vi si dice che “quando Enea partì dalla Sicilia per venire nel Lazio, un certo Lanoios, siculo, si unì a lui”.
La parola “Lanoios “, tradotta in Latino, avrebbe dato “Lanuvium “, perché, come sappiamo, il Greco di epoca storica non aveva la V, ma il Greco arcaico sì e si scriveva come la nostra effe in stampatello F, chiamata “digamma”, cioè doppio gamma (r), uno sull’altro. Perciò l’originale arcaico della parola “Lanoios” era questo: “LANOFIOS”, in Latino “Lanuvium “.
Dunque, questa leggenda farebbe risalire la fondazione di Lanuvio a questo mitìco Lanoios, compagno di Enea, inserendo così Lanuvio nell’ epopea di Enea stesso. È probabile che Appiano, vissuto nel II sec. d.C., non conoscesse questa leggenda, dato che ai suoi tempi l’opera di Q. Fabio Pittore ormai non esisteva più.
La scoperta dell’ epigrafe di Taormina ci ha, dunque, restituito una preziosa reliquia di quella che fu la prima opera che narrava la storia di Roma, anche se scritta in Greco, purtroppo presto perduta; ma ad essa attinsero sia Virgilio sia Livio.
Al di là della mitologia fantastica e immaginosa, dobbiamo ammettere che verosimilmente la parola ‘Lanuvio’ derivi dalla radice latina ‘lana’, in relazione all’abbondanza della produzione di lana dell’agro lanuvino, come a dire: un diluvio di lana.
Noi, però, eredi della cultura e degli ideali dei nostri antenati, non vogliamo ripudiare in blocco le leggende da essi elaborate, nella persuasione che la grandezza e il prestigio degli eroi eponimi riflettono la grandezza, il prestigio e l’importanza storica del popolo che li ha adottati: quanto più grande era la fama e la gloria di un eroe, tanto più doveva essere quella del popolo che da lui vantava la propria origine. Perciò è d’obbligo conoscere tutto ciò che la mitologia narra a proposito del grande Diomede.
Era figlio di Tideo, re di Argo.
Fu educato, insieme ad Achille, dal centauro Chirone.
Partecipò alla spedizione contro Tebe, ma la sua fama è legata alla guerra di Troia, in cui fu il guerriero greco più forte, dopo Achille. Sempre il primo in battaglia, gli riuscì perfino di ferire Ares, il dio della guerra.
Compì le sue imprese spesso in coppia con Ulisse, come quando rapì, dalla rocca di Troia, il Palladio, la sacra statua della dea Atena: fatto importantissimo per la vittoria finale dei Greci, in quanto, secondo l’oracolo, finché il Palladio fosse rimasto al suo posto, Troia non sarebbe caduta; come quando, sempre in compagnia di Ulisse, penetrò nottetempo nel campo dei Traci e rubò i cavalli del re Reso, ucciso da Diomede stesso nel sonno; infatti un oracolo prediceva che Troia non sarebbe caduta finché i cavalli di Reso avessero bevuto l’acqua del fiume Xanto e brucato l’erba di Troia; o come quando staccò, con un fendente, la testa del gradasso Dolone, rotolata a terra, mentre ancora parlava.
Caduta Troia e tornato ad Argo, trovò che la moglie gli era stata infedele. Deluso e sconsolato, partì in cerca di una nuova patria. Giunto in Apulia, aiutò il re Dauno nella guerra contro i suoi nemici e ne ricevette in dono, come moglie, la figlia Enippe. Morto Dauno, divenne re dei Dauni.
Molte città si attribuirono l’onore di essere state fondate da Diomede. Nell’antichità fu onorato come un dio e gli furono tributate forme di culto, come sacrifici e processioni.
Il culto di Giunone Sospita
Properzio (IV, 8, 3-14)
Qui fu recata la mia Cinzia (…) Lanuvio è, da tempo antico, sotto la tutela di un annoso drago: qui, dove non è certo sciupato l’indugio di un’ora così fuori dal comune, dove la sacra discesa sprofonda in una bocca tenebrosa, in cui penetra una vergine in onore del serpente digiuno, quando esige l’annuo pasto e lancia sibili torcendosi dal fondo del terreno. Le fanciulle mandate giù per tali riti sono pallide nell’affidare temerariamente la mano alla bocca del serpente. Questo afferra i cibi che la vergine gli accosta, e nelle palme della vergine trema il canestro. Se sono state caste, ritornano tra le braccia dei genitori e i contadini gridano: l’anno sarà fertile.
Eliano (XI, 16). Traduzione di Francesco Maspero, Milano 1998 (pp. 660-663)
A Lavinio* vi è un bosco sacro, grande e folto, e nei pressi sorge un tempio dedicato a Era protettrice dell’Argolide. Nel bosco vi è una tana vasta e profonda, dove dimora un mostruoso serpente. In determinati giorni dell’anno entrano nel bosco delle giovinette ancora vergini, che recano nelle mani una focaccia e hanno gli occhi bendati. Le conduce direttamente alla tana di quel mostro uno spirito divino; esse avanzano passo passo, senza inciampare, come se avessero gli occhi scoperti. Se sono veramente illibate, il serpente accetta le loro offerte di cibo, poiché le ritiene pure e adatte a un animale prediletto dagli dèi. Altrimenti i cibi restano intatti, perché esso conosce in anticipo e indovina la loro impurità. La focaccia della giovinetta deflorata viene allora sminuzzata dalle formiche per renderne facile il trasporto; successivamente le formiche la portano fuori del bosco e ripuliscono così il luogo. Gli abitanti, venuti a conoscenza dell’accaduto, indagano sulle giovinette che hanno preso parte alla cerimonia e quella che ha disonorato la sua verginità viene punita secondo la legge. (* Nella versione di Eliano si accenna proprio a Lavinio e non a Lanuvio).
Pseudo Prospero. Traduzione di Oreste Raggi, Roma 1879, (pp. 177-178)
Presso la città di Roma fu una spelonca, nella quale un dragone di grandezza meravigliosa, formato meccanicamente, portando in bocca una spada, cogli occhi scintillanti per le gemme, spaventevole e terribile appariva. A questo, vergini onorate di fiori, consacrate ogni anno, in tal maniera gli si davano in sacrificio, che non consapevoli della cosa, portando doni, toccando un gradino della scala da cui con tutta quell’arte del diavolo pendeva il meccanismo, il colpo della spada si scaricava, onde si spargesse il sangue innocente. E questo fu in tal modo distrutto da un monaco ben conosciuto pel suo merito da Stilicone: tastando questo monaco col bastone in mano ciascun gradino, come toccando quello si accorse della frode diabolica, lo saltò; e scendendo tagliò in pezzi il dragone, mostrando ivi numi che si fanno colle mani.
Rinvenuto a Lanuvio il più antico alfabetario latino
Importante scoperta a Lanuvio del più antico alfabetario latino.
Tempo fa, sulla rivista “Archeo”, è stato pubblicato un articolo sul ritrovamento del più antico alfabetario latino. Questa scoperta è avvenuta grazie alle ricerche condotte nel santuario di Giunone Sospita, nell’anno 2000, dal Direttore del Museo Civico di Lanuvio Dott. Luca Attenni.
In quell’occasione il Dott. Attenni è entrato in contatto con i proprietari del villino Dionigi, situato vicino l’area templare, e della omonima collezione archeologica.
La collezione comprende frammenti di terrecotte architettoniche arcaiche e del contenuto di una favissa rinvenuta presso il tempio. Entrambi i gruppi di frammenti sono conservati ed esposti nel Museo Civico di Lanuvio.
Un importante aspetto emerso dallo studio della collezione storica è il rinvenimento di due frammenti iscritti del piede ad anello di una coppa databile tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C. L’iscrizione, apposta sul fondo esterno, conserva il più antico alfabetario in scrittura latina, la cui forma delle lettere dimostra che deriva da quella etrusca che ha, a sua volta, influenzato quella degli Ernici.
Il reperto fu conservato da Giovanni Dionigi, che fu Direttore della biblioteca dell’accademia dei Lincei, appassionato di epigrafia.
La comunità lanuvina è grata al Sig. Dionigi per aver conservato con lungimiranza anche i più piccoli reperti e soprattutto per aver donato i due frammenti della coppa con alfabetario al Museo Civico di Lanuvio.
L’interesse scientifico del reperto è dato dalla presenza di un’iscrizione sotto il piede di una coppetta di bucchero, della quale restano purtroppo solo due frammenti.
L’iscrizione è stata graffita dopo la cottura con uno strumento dalla punta sottile, che ha lasciato un tratto leggero: è per questo che è difficile fare una buona fotografia, dato che alcune incrostazioni calcaree bianche saltano troppo all’occhio rispetto alla superficie nera del vasetto e al tracciato grigio delle lettere. Ad ogni modo la lettura è sicura.
Si tratta di un alfabetario, ovvero una sequenza alfabetica trascritta in ordine su un oggetto, verosimilmente offerto in un santuario. L’uso di apporre questo genere di iscrizioni era abbastanza diffuso nel mondo greco e ancor di più in quello etrusco, a testimonianza del valore magico-religioso della scrittura all’inizio della storia.
È quindi molto probabile che il vaso iscritto con l’alfabetario fosse stato offerto nel santuario di Juno Sospita Lanuvina.
Il fatto che rende eccezionale il ritrovamento di questa iscrizione è però l’effettiva rarità dell’uso di alfabetari in ambito latino. Questo di Lanuvio è il più antico di tutti, dal momento che si data approssimativamente verso la fine del VI secolo a.C., e il secondo più antico dopo di esso risale all’inizio del III sec. a.C.: più di duecento anni dopo.
La datazione dell’iscrizione dipende in primo luogo dal supporto, cioè dalla coppa di bucchero sulla quale è stata graffita. Dalla forma del piede si può sapere che questo tipo di vaso è stato utilizzato tra la seconda metà del VI e la prima metà del V secolo a.C.
Il confronto delle lettere utilizzate con quelle di altre iscrizioni latine permette di precisare la cronologia all’ultimo venticinquennio del VI secolo a.C.
Veniamo alla lettura dell’iscrizione.
L’andamento è da destra verso sinistra e si conserva solo la seconda parte della serie alfabetica:
[ – – – ] K L M N O P Q R S T U X
– del K restano solo i due tratti superiori che non consentono di capire se le due traverse oblique si incontrassero o meno all’innesto con l’asta verticale;
– la L è ad angolo acuto secondo il cd. tipo calcidese, normale nelle iscrizioni latine dalle origini e fino al III sec. a.C.;
– la M, come si è detto, è a quattro tratti, ma capovolta rispetto al senso della scrittura;
– la N è di forma semi-evoluta, con tratti di uguale altezza, ma con traversa incurvata e tratto di sinistra non ancora verticale;
– la O è sensibilmente più piccola delle altre lettere alla maniera arcaica, ma aperta in basso secondo un tipo poco diffuso prima del IV sec. a.C.;
– la P ha l’asta verticale prolungata e l’occhiello aperto;
– la Q, di forma particolare, è stato realizzato con due tratti curvi: uno più ampio a sinistra, che compone una semicirconferenza dotata di due codoli in alto ed in basso, ed uno più sottile a destra, che chiude il cerchio centrale;
– la R, con occhiello chiuso e codolo inferiore, è resa alquanto irregolare dal prolungamento del tratto curvo oltre la traversa verticale e dalla ribaditura del codolo;
– la S è retrograda, a quattro tratti ad andamento serpeggiante, con il semicerchio superiore più ampio e marcato di quello inferiore;
– T ed U sono unite in legatura per il vertice inferiore, a comporre una sorta di segno a tridente: la prima lettera ha una breve traversa obliqua e secante l’asta verticale;
– la X è appena più piccola delle altre lettere e leggermente coricata a destra.
L’alfabeto, comunque, è quello latino arcaico, ancora simile per molti versi a quelli greco ed etrusco da cui è derivato, ma ben riconoscibile per l’assenza di alcune lettere.
A questo punto, per spiegare l’importanza della nuova iscrizione e per permettere anche ai non addetti ai lavori di comprenderla, è necessario fare un breve excursus sulla storia dell’alfabeto.
L’alfabeto è stato inventato in ambiente greco tra il IX e l’VIII secolo a.C. e derivava direttamente da quello fenicio; le lettere adattate per esprimere suoni greci erano ordinate in una sequenza anche più lunga di quello che era necessario, tanto che alcuni segni che pure erano presenti nella serie alfabetica, non vennero utilizzati, mentre altri vennero introdotti dai greci per esprimere alcuni suoni particolari.
In questo momento, a partire dalle più antiche colonie greche in Italia, Pitecusa e Cuma, l’alfabeto passò così com’era agli Etruschi, che ne fecero uso per la propria lingua.
In effetti, uno dei più antichi alfabetari greci completi viene da ambiente etrusco ed è inciso sul bordo di una tavoletta scrittoria da Marsiliana d’Albegna, ma può essere a buon diritto considerato un esempio della più antica serie alfabetica greca.
A quest’epoca, ancora per tutto il VII secolo a.C., in Italia il greco, l’etrusco ed anche il latino utilizzavano lo stesso alfabeto, ma con alcune differenze nella scelta dei segni da usare.
A partire dal VI secolo, però, si è iniziato a selezionare meglio i segni non solo nella scelta delle lettere da usare per la scrittura, ma anche nella sequenza dell’alfabeto. È così che alcune lettere sono state cancellate dalla serie perché giudicate inutili.
Rimanendo nell’ambito latino ho già detto che il secondo alfabetario in ordine di antichità dopo quello di Lanuvio è del III sec. a.C. ed è stato graffito sul bordo di un piatto “Genucilia” da Palo Laziale sulla costa a Nord di Roma.
Il confronto tra i due alfabetari dimostra che la serie alfabetica è identica (almeno per la seconda parte); le poche differenze riguardano soprattutto la forma di alcune lettere più recenti, come la Q, la R e la S.
Questo confronto è quindi la prova che l’alfabeto latino era già ben definito e stabile alla fine del VI secolo, anche nei centri latini del Lazio meridionale, come Lanuvio, a contatto con popolazioni italiche diverse.
Ed in realtà, andando ad approfondire la ricerca, si è scoperto che la scrittura in uso a Lanuvio alla fine del VI secolo a.C., testimoniata dall’alfabetario, è quasi identica a quella utilizzata da un popolo italico vicino: gli Ernici, la cui capitale era Anagni, dei quali si conosce un’iscrizione abbastanza lunga graffita su un’olletta di bucchero donata in un santuario, appunto ad Anagni.
In particolare, va notato l’uso della M rovesciata (e anche della N), la S a quattro tratti, e non ultimo che la scrittura è disposta da destra a sinistra. Praticamente, l’unica differenza è la forma della T, che nell’iscrizione ernica è più simile al tipo latino classico.
Il confronto con le altre iscrizioni latine del VI secolo a.C. dimostra che in realtà gli Ernici utilizzavano in questa epoca la scrittura latina per la propria lingua, proprio come avevano fatto nel secolo precedente i latini e gli etruschi con la scrittura greca.
In realtà gli Ernici, spesso alleati e qualche volta nemici dei Latini e di Roma, evidentemente ne subivano l’influenza culturale, fino ad utilizzare la scrittura latina senza modificare nulla. Ed è senz’altro interessante che l’alfabeto da loro utilizzato avesse le caratteristiche di quello in uso a Lanuvio, dimostrando che non era da Roma e dai centri maggiori che partiva tale influenza culturale (o almeno non solo da lì), ma aveva voce in capitolo anche la periferia latina di cui Lanuvio era uno dei centri principali.
Per concludere vorrei sottolineare che la coincidenza dell’alfabetario arcaico di Lanuvio con quello più recente di Palo Laziale dimostra una grande stabilità dell’alfabeto e della scrittura latina. Ciò è ancora più sorprendente in considerazione della complessità delle vicende storiche del Lazio arcaico e repubblicano.
All’epoca in cui fu iscritto l’alfabetario, la città di Lanuvio faceva parte assieme agli altri populi latini di una grande alleanza sotto il controllo di Roma tra il regno di Servio Tullio e quello di Tarquinio il Superbo. Una situazione così stabile potrebbe giustificare la forza del sistema scrittorio latino, che si impone anche ai popoli vicini.
Ma più avanti, nel V e IV secolo, sono state numerose le guerre e le lotte dei Latini fra loro e contro gli Etruschi, i Volsci, i Sanniti e poi anche gli Ernici.
Senza dubbio il Lazio meridionale fu spesso in epoca alto repubblicana un campo di battaglia ed una regione poco stabile dal punto di vista politico e sociale; ma la stabilità dimostrata dal sistema scrittorio e la sua omogeneità in tutta la regione sono una prova di continuità storica e sociale e di una sostanziale permeabilità culturale tra le comunità dei centri latini, anche in momenti di tensione politica e di opposizioni militari.
Dionisio e il vino nell'Ager Lanuvinus
Quella del vino è un’antica tradizione che ha reso Lanuvio luogo di produzione di ottimo vino DOC.
Questo è il territorio del Vino DOC Colli Lanuvini. Al Vino sono dedicate due tra le principali manifestazioni del territorio, la Festa del Vino a settembre e la festa del Vino Novello in novembre. Occasioni speciali per apprezzare la cultura enologica lanuvina. In tali circostanze infatti viene proposta al pubblico la degustazione dell’apprezzato vino locale, la cui storia affonda le radici in tempi lontanissimi.
E infatti la storia del vino è anche, in un certo senso, la storia dell’umanità. Risulta pertanto davvero complesso ma anche estremamente importante tracciarne il corso: ogni popolazione possiede una sua storia del vino, anche se probabilmente le sue origini vanno ricercate in oriente, culla della civiltà.
Sembra addirittura che la vitis vitifera, a cui appartengono quasi tutte le moderne varietà d’uva, risalga cronologicamente ai tempi preistorici. La Bibbia, nella Genesi, riferisce che Noè, appena sceso dall’arca, dopo il diluvio, piantò una vigna per ottenerne vino, fornendoci dunque testimonianza del fatto che le tecniche enologiche erano ben conosciute già in un’ epoca assai remota.
Gli Egiziani furono maestri e depositari di tali metodologie, come testimoniato da numerosi geroglifici che riportano registrazioni accurate di tutte le fasi del processo produttivo: dal lavoro in vigna alla conservazione.
Attraverso i Greci e i Fenici il vino si diffuse in Europa ed i poemi omerici testimoniano ampiamente la presenza e l’importanza della bevanda: a Poliremo, ad esempio, viene propinato puro un vino che, secondo le usanze dell’ epoca, veniva diluito con acqua.
In Grecia il rituale della commensalità si esprimeva attraverso la separazione delle attività connesse al cibo – il banchetto (deipnon) – e di quelle connesse alle bevande – il simposio (symposion) – secondo precise abitudini rimaste immutate nel tempo. Al banchetto seguiva il simposio, nell’ambito del quale si servivano cibi salati, dolci e, finalmente, vino in abbondanza. Poiché bere il prezioso liquido puro era ritenuto usanza barbara, esso veniva servito sempre diluito con acqua fredda o tiepida: compito del simposiarca era deciderne le proporzioni. Quindi in un cratere centrale – dal quale i coppieri attingevano con i mestoli la bevanda da versare nei calici dei convitati – veniva preparata la miscela di acqua e vino.
A Locri, in Magna Grecia, le leggi di Zaleuco prevedevano addirittura la pena di morte per chi avesse bevuto vino puro senza prescrizione medica.
Durante il simposio i convitati si cingevano la testa con bende, fiori e corone, offrivano libagioni alle divinità, si davano ai divertimenti e assistevano a spettacoli musicali.
Ingrediente onnipresente nell’antica cucina romana era il vino cotto, profuso senza limitazioni, impiegato semplice o condito con il miele, nella versione di passito, di sapa, di defrutum e di caroenum. Il vino mielato si otteneva abbastanza semplicemente: bastava mescolare qualche cucchiaiata di miele al denso liquore tanto più che, anticamente, il vino non era pastorizzato né filtrato. Il passito, tratto dai grappoli d’uva fatta per l’appunto “passire” sui graticci, potrebbe essere paragonato all’attuale “Marsala” o “Pantelleria”.
L’antica ricetta del Conditum Paradoxum – il vino meraviglioso speziato – tramandata nel De Re Coquinaria di Apicio, rivela la sua origine greca già nell’aggettivo paradoxum, derivante appunto dal greco paràdoxos, che stava a indicare proprio l’effetto sortito dall’assunzione della bevanda. Nonostante l’impiego veramente notevole di pepe, questo vino aveva la caratteristica di essere molto dolce: infatti 9 o 10 litri di liquido si temperavano addirittura con 4 o 5 chilogrammi di miele. La presenza di noccioli di datteri polverizzati conferiva allo sciroppo anche proprietà mediche.
Durante l’Impero le tecniche legate alla viticoltura raggiunsero livelli molto elevati e l’uso di tale bevanda tra la gente era così diffuso che i viandanti, persino in cammino, non potevano rinunciare alla consuetudine, tutta romana, di condire e personalizzare i vini: essi, infatti, portavano sempre con loro un piccolo vaso di miele e uno di pepe con cui insaporivano all’istante i vini serviti nelle osterie e nei thermopolia che incontravano lungo le vie.
A differenza dei Greci, che conservavano il vino in anfore di terracotta, i Romani cominciarono a usare barili in legno e bottiglie di vetro, introducendo il concetto di “invecchiamento”.
La viticoltura nei Castelli Romani era già diffusa nei primi anni dell’Impero, tanto che il vino laziale si esportava in tutte le regioni: per questo motivo Ostia era diventata un emporio vinario di grande importanza.
L’intensa attività di coltivazione della vite nella campagna romana e l’enorme importanza del suo frutto spremuto sono attestate anche dai culti praticati nella zona, la cui diffusione è testimoniata da numerosi ritrovamenti. Nel 1908, nel corso di lavori agricoli, fu scoperto, in località Torre del Padiglione, nell’ ager lanuvinus, un pregiato bassorilievo in marmo pentelico raffigurante Antinoo (l’amasio dell’imperatore Adriano, annegato nel 130 d.C. nelle acque del Nilo) in probabili sembianze di Silvano, la divinità agreste romana assimilata al Sileno greco, che tagliava i grappoli della vite con un falcetto impugnato a destra, mentre nella mano sinistra teneva forse un grappolo d’uva.
Anche la presenza di statue di culto di Dioniso attesta la diffusione e, dunque, l’amore per il vino nutrito dagli abitanti dell’ ager lanuvinus. Ad esempio, all’incrocio tra via del Bottino e via Colle del Cavaliere a Lanuvio, si rinvenne una statua di Dioniso in più frammenti, in marmo bianco venato: il dio, dall’aspetto giovanile, rivestito di una nebride (pelle di cerbiatto), venne rappresentato proprio nell’atto di versare vino da un kantharos ovoide, mentre sorreggeva con l’altra mano una piccola pantera. I tratti di Dioniso incarnano lo spirito di tutto ciò che è vita: egli è il dio agreste della vegetazione rigogliosa, nonché dio della fertilità, il principio per cui le cose vive generano i viventi. Non solo: Dioniso è il dio dell’uva e del vino e, quindi, è il nume tutelare dell’ ebbrezza e della perdita della ragione. Dioniso toglie le inibizioni, riconduce gli uomini alloro stato primordiale e selvaggio, li fa ballare, gridare, agitare, li spinge a un’esaltazione che porta all’orgia e alla violenza: tutto questo è però privo di ogni significato negativo, in quanto nulla può ritenersi giusto o ingiusto nell’ enthousiasmòs delirante.
In Grecia Dioniso era l’unico dio che concedeva alle donne e agli schiavi di partecipare ai suoi riti: nella terra degli dei il vino era di tutti e per tutti, indistintamente. Per le donne, che normalmente non erano ammesse ai simposi, i misteri bacchici costituivano forse l’unica occasione per evadere dalle rigide limitazioni imposte dal loro ruolo sociale e sentirsi, finalmente, libere.
A Roma, invece, il vino era loro vietato e bevuto e gustato solo da uomini liberi e maturi.
Se per i Greci Dionisio era il patrono dell’evasione controllata e rappresentava la valvola che garantiva la stabilità del sistema, non era così per i Romani.
In prospettiva ellenica i riti bacchici avevano una funzione doppia: a livello individuale quella di procurare sollievo nella vita e preparare a una buona morte, a livello comunitario di garantire la pace sociale. Simbolo di un tale profondo senso di libertà poteva essere anche l’omologo latino Liber, patrono della prosperità, tuttavia il senato romano percepiva la diffusione del culto dionisiaco fra la gente come estremamente pericoloso per la stabilità sociale al punto che, nel 186 a. c., decretò disposizioni legislative tendenti a limitare sia a Roma sia in Italia il culto dei Baccanali, le feste orgiastiche in onore di Dioniso. Nonostante tali misure restrittive, a Lanuvio la diffusione della ritualità bacchica è attestata, in maniera straordinaria, dal dipinto ad affresco con scena di iniziazione dionisiaca, risalente ad età augustea, i cui frammenti sono conservati in una teca del Museo civico Lanuvino, vero tempio della memoria della storia e delle tradizioni di questo antico territorio.
La viabilità lanuvina
Nel corso di recenti indagini archeologiche preliminari, relative a edilizia privata, sono venuti alla luce tracciati basolati non noti che si inseriscono in una rete viaria più ampia.
Delle vie che dovevano percorrere l’ager lanuvinus, una in particolare ha offerto e continua ad offrire consistenti tracce archeologiche. Questa taglia il territorio lanuvino da nord a sud: si distaccava dall’Appia antica presso il XIX miglio, rinvenuto nel 1910 e che è stato di grande utilità per una corretta ricostruzione topografica della zona, e raggiungeva Lanuvio dopo aver costeggiato il fianco orientale del Colle San Lorenzo.
Questo importante asse stradale, a cui recentemente sono stati dedicati studi e ricerche che hanno permesso di individuare il percorso con una certa precisione, si dirigeva verso la costa tirrenica, in direzione della città di Antium. L’origine di questo tracciato sembra risalire all’età protostorica ed essere connessa al sistema, ancora più antico, delle transumanze dell’età del Bronzo.
Dalle fonti letterarie abbiamo appreso che la via tra Lanuvio e la costa era pienamente attiva ai tempi di Cicerone (ad Att., XIII, 34; ad Att., XIV, 2) e testimonianza della funzionalità della via in epoca tardorepubblicana è la costruzione del Ponte Loreto da far risalire tra il II e il I sec. a.C., ponte che permetteva il superamento del piccolo fosso di Fontana Torta.
Il tracciato della via fu chiaramente compreso agli inizi del XX secolo da Rodolfo Lanciani che eseguì delle ricognizioni topografiche grazie alle quali giunse alla conclusione che la via doveva raggiungere Anzio e gli diede il nome convenzionale di “via Lanuvio-Anzio”.
Ai piedi del Colle San Lorenzo, come hanno dimostrato gli scavi condotti da Elisa Lissi Caronna e scavi recenti, la via doveva biforcare attraversando in modo non sempre rettilineo il colle affrontando in taluni casi elevate pendenze. Questo tratto urbano è stato definito asse Nord-Sud. L’asse Nord-Sud e la via Anzio–Lanuvio si incontravano nuovamente nei pressi della porta urbica meridionale, nei pressi del Santuario della Madonna delle Grazie.
Altra strada degna di menzione è quella denominata dal Galieti via Ardeate-Lanuvina, poiché lo studioso riteneva che essa, partendo dal foro dell’antica Lanuvium (ubicato nell’attuale Piazza Carlo Fontana), giungesse fino ad Ardea. La ricostruzione del tracciato viario operata nel tratto urbano dal Galieti va, tuttavia, rivisitata sulla base di recenti rinvenimenti avvenuti al di sotto del palazzo Comunale.
Dove dormire
Strutture ricettive in atti:
Dove mangiare
Attività di ristorazione in atti:
ANTICO BORGO Pizzeria – Trattoria – Via Stampiglia, 10 Tel. 06/9376335
DAEDO Trattoria – Piazza della Maddalena, 14 Tel. 347 033 6743
IL BELVEDERE Trattoria – Pizzeria – Via A. De Gasperi, 16 Tel. 06/9375392
IL GLADIATORE Ristorante – Trattoria – Via del Torrione, 1 Tel. 06/9375630
LA CAPANNINA Trattoria – Pizzeria – Via Laviniense Km. 3,050 Tel. 06/9377088
LA PIAZZETTA Ristorante – Pizzeria – Via Cardinal Trombetta, 4 Tel. 0693781066
LA TORRE Ristorante – Piazza G. Mazzini, 2 Tel. 06/9376231
LE SCALETTE Pizzeria – Tavola calda – Via A. Gramsci, 250/E Tel. 06/9375966
I NUMERI Pizzeria-Rosticceria da asporto – P.zza C. Fontana, 13 Tel. 06/9377070
RISTORANTE CAMPOLEONE Ristorante – Trattoria – Via Cisternense, 76 Tel. 349/6616405
CAFFE’ VECCHIA ROMA Tavola calda – Bar – Via Cistercense, 28 Tel. 06/9303353
CASALE DEL CAVALIERE Agriturismo – Via Astura, 81/A Tel. 06/9303567
CASALE DELLA MANDRIA Agriturismo – Via Mediana Bonifica, 23 Tel. 06/93748540
GIANCAMILLI FRANCESCA Tavola calda – Bar – Via Nettunense Km. 17,600 Tel.
GREEN BAR Tavola calda – Bar – Via Nettunense, 26 Tel. 069303431
IL GIARDINO DI GIUPI Agriturismo – Via delle Crocette, 7 Tel. 06/9377160
LA MERIDIANA Agriturismo – Via Laviniense, 47 Tel. 06/9377296
QUATTRO STELLE Tavola calda – Bar – Via Nettunense Km. 19,400 Tel. 06/9303228
I 7 PECCATI Ristorante – Via Nettunense, 149 Tel.